Era un giorno verso la metà di gennaio del 1959, giusto il giorno successivo al suo arrivo, quando il neopromosso Sottotenente Renato Cresta, assegnato al Battaglione Aosta, alle cinque e mezza del mattino si è trovato inquadrato con tutta la 134ª Compagnia Mortai nel cortile della Caserma Testafochi. Il collega anziano, il S.Ten Vittore, lo informa che il programma della giornata prevede una marcia sino a Pila (Chissà dove sarà!).
Io sono in coda, ultimo dopo i muli. Osservo animali e conducenti: è la prima volta che li vedo al lavoro e cerco di capire qualcosa di questo “nuovo mondo
”.

Ecco a noi un nuovo scritto del genovese di Macugnaga: una storia di montagna, di rituali di amicizia e solidarietà e … di muli.

Tornano la semplicità e l’autenticità delle “piccole” cose, dei gesti semplici e sinceri, che spesso passano inosservati ai distratti ma che consentono insieme di fare grandi cose.

Appena iniziata la salita, mentre il reparto prosegue il suo cammino, le salmerie si fermano, poi la voce del Caporal Maggiore Cucciola manda un comando: Molla la bragaa ”.

“Ho capito che l’imbragatura deve essere tirata a misura del passo del mulo ed in salita l’animale allunga molto le zampe posteriori per cui, se la braga è tirata “a misura pianura”, risulta troppo corta ed impedisce al mulo di allungare le zampe posteriori”: un gesto spontaneo per chi “conosce i muli”, un gesto che va insegnato a chi non ha mai marciato con muli carichi in montagna.

E questo non è l’unico insegnamento del giorno per il neopromosso Sottotenente Renato Cresta, che al Rifugio tentenna e si domanda “Come si fa a bere vino alle otto del mattino? E, per di più, senza ancora aver fatto colazione? “.

Il racconto vede in premessa una confidenza sulla saggia arte del riciclo: pratica sanissima nel privato e nel collettivo ..ma questa è un’altra storia.

E vede poi un tuffo nelle radici del passato: “Quella di bere à la ronde tra amici o parenti è una tradizione che affonda le sue radici nell’antica Grecia, passata poi ai romani e durata sino a tutto il Medio Evo.

La consuetudine si è poi smorzata ma in alcune regioni è rimasta radicata sino ai giorni nostri e prevede che tutti bevano dalla stessa coppa passata di mano in mano, in senso antiorario e senza appoggiarla sul tavolo per non interrompere il brindisi. Brindare insieme, bere dalla stessa coppa, come ho appena fatto, per augurarci reciprocamente salute e benessere accresce il significato di unione tra chi partecipa al rituale”.

E come nelle antiche fiabe di Esopo, Renato medita su che cosa ha imparato quel giorno: “Oggi ho imparato qualcosa a proposito dei muli ed ho pure imparato che, anche se non coincide con le consuetudini cui sei abituato, devi accettare un invito quando è un’offerta di amicizia fatta con sincera spontaneità”.

In realtà c’è un terzo insegnamento: la conoscenza, come la coppa del vino, così come generosamente si riceve altrettanto generosamente si passa al prossimo e verrà sempre il nostro turno di ripetere un insegnamento ricevuto sia pur tanti anni prima. E se fosse anche questa immortalità?

Nelle diversità delle tradizioni, diverse per epoche, luoghi e culture, resta il valore della condivisione: “E la pipa è fatta passare di mano in mano, perché tutti possano far salire al cielo le loro intenzioni di amicizia e di pace”.

Prima “invece del tabacco, erba del nuovo mondo, si usava il vino, bevanda del vecchio mondo”.

“È diverso il contenuto, ma è uguale il significato: Nel cavo del contenitore rituale è stata versata una sostanza sacra che deve essere condivisa, passata di mano in mano ad ognuno dei partecipanti alla cerimonia”.

E se sacri non fossero né il fumo né il buon vino ma … e se sacre fossero la condivisione, la sorellanza, la fratellanza, la solidarietà, il rispetto della vita e della dignità del prossimo?

Le montagne dividono le acque e uniscono gli uomini” leggiamo sul Monte Saccarello.

Una lezione che non abbiamo ancora imparato…

Buona lettura!

Francesca Fabbri

comitato scientifico sezionale

Riciclo 

Come ho già detto a proposito del racconto Punti di vista, ogni tanto abbatto qualche frase, o un intero periodo, da un racconto e lo metto da parte per farne spunto di un’altra storia.

È quanto è accaduto al periodo del kalumet che apre questo mio “insieme di pensieri”: era inizialmente compreso in Tavolata a Capenardo ed invece lo trovate qua sotto. 

I film western mi avevano più volte mostrato gli indiani che fumavano la pipa, non per vizio, ma per un rito con cui si attestava pace ed amicizia tra i partecipanti: era il rito del kalumet, la pipa cerimoniale. La visione cinematografica di questo rito ha suscitato la mia curiosità e mi sono documentato presso la biblioteca dell’USIS (United States Information Service) gestita dal Consolato USA ed allestita in via XXV Aprile, che già frequentavo. Trovato un testo su usi e tradizioni dei nativi nord americani ho imparato che il cannello di legno che sorregge il fornello rappresenta l’uomo, che sostiene la sua famiglia. Il fornello è di argilla, la stessa che il Creatore (Grande Spirito) ha usato per plasmare la donna; infatti, come la donna tiene dentro di sé i bambini e genera la vita, allo stesso modo il fornello della pipa accoglie dentro di sé il tabacco che genera il fumo. Il fumo che aspiri è il respiro del Creatore che, penetrando nel tuo corpo, lo purifica e rigenera. Il fumo che lascia la tua bocca sale al Creatore e gli porta le tue preghiere, i tuoi sogni, le tue speranze, i tuoi desideri.

E la pipa è fatta passare di mano in mano, perché tutti possano far salire al cielo le loro intenzioni di amicizia e di pace. 

Leggendo la parafrasi di questo rito comunitario mi è successo di assimilarlo ad uno altrettanto antico in cui, invece del tabacco, erba del nuovo mondo, si usava il vino, bevanda del vecchio mondo. Rispetto al kalumet, il contenitore del vino è diverso per dimensioni ma simile per forma al fornello della pipa (nelle foto uno skyphos greco conservato al Louvre, uno skyphos etrusco ed una vecchia grolla valdostana in legno).

È diverso il contenuto, ma è uguale il significato: Nel cavo del contenitore rituale è stata versata una sostanza sacra che deve essere condivisa, passata di mano in mano ad ognuno dei partecipanti alla cerimonia.

È condiviso il fumo ed è condiviso il vino che, nell’Antico Testamento, era considerato il simbolo di tutti i doni provenienti da Dio, era la bevanda della vita che sa donare consolazione e gioia e sa curare la sofferenza dell’uomo.

Nei primi tempi del cristianesimo, la coppa è divenuta un calice e questo è diventato il Graal, la leggendaria coppa con la quale Gesù celebrò l’Ultima Cena e nella quale fu raccolto il sangue sgorgato dal suo costato trafitto dalla lancia del centurione romano.

La tradizione vuole che nel culto del Graal abbia inizio la consuetudine della grolla valdostana, il calice per le bevute in comune, tra amici, che bevono tutti la stessa bevanda dalla stessa coppa.

 In taberna quando sumus 

Era un giorno verso la metà di gennaio del 1959, giusto il giorno successivo al suo arrivo, quando il neopromosso Sottotenente Renato Cresta, assegnato al Battaglione Aosta, alle cinque e mezza del mattino si è trovato inquadrato con tutta la 134ª Compagnia Mortai nel cortile della Caserma Testafochi. Il collega anziano, il S.Ten Vittore, lo informa che il programma della giornata prevede una marcia sino a Pila (Chissà dove sarà!).
Sarà una marcia di controllo delle condizioni fisiche degli uomini, del materiale e dell’equipaggiamento perché l’indomani tutta la Compagnia, lui compreso, partirà per le escursioni invernali.

A metà gennaio l’inverno di Aosta è freddo, ma quando sei in cammino lo senti molto meno. Attraversata sul Ponte Suaz la sonnolenta Dora e lasciata alle spalle la vecchia Aosta, iniziamo a salire lungo un’antica mulattiera innevata che arranca tra vigneti a terrazza scheletriti dal gelo. Osservo le vigne: il freddo intenso di quest’ora ancora senza sole fa apparire tristi e scoraggiati i tralci rinsecchiti, spigolosi e scuri.

Io sono in coda, ultimo dopo i muli. Osservo animali e conducenti: è la prima volta che li vedo al lavoro e cerco di capire qualcosa di questo “nuovo mondo”.

Appena iniziata la salita, mentre il reparto prosegue il suo cammino, le salmerie si fermano, poi la voce del Caporal Maggiore Cucciola manda un comando: Molla la bragaa … e tutti i conducenti allentano di alcuni fori la fibbia della parte posteriore dell’imbragatura (si vede nella foto, vicino al basto del mulo a destra), poi anche la colonna delle salmerie si rimette in movimento.

Ho capito che l’imbragatura deve essere tirata a misura del passo del mulo ed in salita l’animale allunga molto le zampe posteriori per cui, se la braga è tirata “a misura pianura”, risulta troppo corta ed impedisce al mulo di allungare le zampe posteriori; il passo in salita si accorcia, l’animale cammina male ed il tempo vola via. Inoltre, osservando il basto ed i finimenti, ho capito che il basto è tenuto lateralmente fermo dalla larga cinghia centrale, il sottopancia e, quando si va in salita, la parte anteriore del cinghione di cuoio che avvolge l’animale, quella parte che si chiama pettorale, impedisce che il basto scivoli indietro. L’inverso avviene quando l’animale affronta una discesa: allora il compito di trattenere il basto è affidato al cinghione posteriore (la braga) ed al sottocoda.

Adesso che ho capito questo devo solo scoprire dove sono acceleratore e freno e poi …

Dopo un primo tratto entro un’incassatura del versante, la mulattiera si affaccia in ambiente aperto, con begli squarci panoramici sulla Valle d’Aosta, ormai sotto di noi, festosamente illuminata dal primo sole. Poco dopo le otto raggiungiamo la località Les Fleurs, poche case di cui una è Rifugio con bar. Sosta del reparto, tutti dentro il bar, solo i muli ed un paio di conducenti di guardia restano all’aperto. La sala che ci accoglie è bassa di soffitto, ma grande abbastanza per contenere tutti gli alpini e, per far buon peso, anche sette od otto borghesi seduti attorno ad un tavolo d’angolo. Dall’abbigliamento non appaiono certo escursionisti o sciatori, mi sembrano gente del posto che, dopo i lavori di governo degli animali, compiuti di buon mattino, si concede una sosta all’osteria per un caffè.

Mi avvicino al collega anziano, il S.Ten. Vittore, e riferisco che siamo tutti arrivati, nel frattempo uno dei borghesi mi chiama al tavolo. Mi avvicino e, mentre gli altri mi guardano con curiosità, il giovanotto che mi ha chiamato mi parla, un poco in italiano e molto in patois: capisco che mi chiede se sono un nuovo ufficiale del Battaglione. Intuisco che deve essere stato congedato da poco e che per lui sono una faccia nuova. Confermo e scambiamo ancora qualche parola. Durante il breve dialogo osservo il tavolo: niente tazzine per caffè; al centro del tavolo c’è solo un bottiglione con accanto una ciotola in terracotta che contiene un poco di vino.

Uno dei borghesi, sembra il più anziano della tavolata, versa del vino nella coppa e me la porge: Come si fa a bere vino alle otto del mattino? E, per di più, senza ancora aver fatto colazione?

Sto cercando le parole per rifiutare quando Vittore, che è poco lontano, mi chiama. Mi scuso e lo raggiungo: a bassa voce, il collega mi dice di accettare l’offerta del vino e di portare la coppa alle labbra, di bagnarle nel vino e di muovere la gola come se sorseggiassi. Capisco che un rifiuto mi metterebbe in cattiva luce: sarei giudicato un signorino schizzinoso oppure un novellino senza nerbo. Torno alla tavolata: adesso l’anziano leva la coppa, beve un sorso e, mentre la passa al suo vicino di sinistra, pronunzia passo ed il vicino la prende dicendo pregno e così via, fino a me.

Anch’io pronuncio il mio pregno e “bevo” mentre tutti mi guardano sorridendo, dopo due finte sorsate, ma con le labbra bagnate dal vino, passo la coppa al vicino alla mia sinistra e tutti mi guardano con visi sorridenti: sono accolto (anche se ho bluffato).

Ricordo di aver letto, forse nei poemi omerici, che si levava la coppa in onore di un amico, si pronunciava il suo nome, si beveva un sorso di vino e si passava la coppa ad un altro dei presenti, che ripeteva il rito e si continuava sino all’amico festeggiato, ultimo della serie, che beveva e tratteneva per sé la coppa. Quella di bere à la ronde tra amici o parenti è una tradizione che affonda le sue radici nell’antica Grecia, passata poi ai romani e durata sino a tutto il Medio Evo.

La consuetudine si è poi smorzata ma in alcune regioni è rimasta radicata sino ai giorni nostri e prevede che tutti bevano dalla stessa coppa passata di mano in mano, in senso antiorario e senza appoggiarla sul tavolo per non interrompere il brindisi. Brindare insieme, bere dalla stessa coppa, come ho appena fatto, per augurarci reciprocamente salute e benessere accresce il significato di unione tra chi partecipa al rituale.

Adesso per loro non sono più un bocia, una recluta e potrei sedermi al loro tavolo e cantare con loro l’antico canto risuscitato dal Carl Orff nei suoi Camina Burana:

In taberna quando sumus                  Quando siamo alla taverna

Non curamus quid sit humus…           non ci curiamo di qual sia la località

Bibit iste, bibit illa,                             Beve questo, beve quella

Bibit servus com ancilla …                Beve il servo con l’ancella …

e dopo una lunga elencazione di bevitori ci si rende conto che:

Bibit iste, bibit ille,                             Beve questo, beve quello,

Bibunt centum, bibunt mille …          Bevono cento, bevono mille.

Scoprirò presto che i valdostani chiamano grolla (forse è una storpiatura di graal) il calice di legno di forma simile a quello usato per la Messa (eccone uno d’antiquariato). L’altra coppa, con cui è spesso confusa, è la coupe de l’amitié la coppa di legno larga e bassa con più becchi, uno per bevitore, per evitare, quando si beve à la ronde, di appoggiare le labbra dove le hanno già appoggiate altri.

Quest’ultima, entrata nel mondo del folclore turistico, è preparata per bere il caffè alla valdostana, con grappa e scorze d’arancia. Ma i valdostani veri, quelli fedeli agli usi di un tempo, non mettono la scorza d’arancia (in Valle non crescono aranci) ma, insieme alla grappa, aggiungono ‘na cica d’ beurrou, un pezzetto di burro che fonde rapidamente nel caffè caldo e fa comparire alla superficie chiazze giallastre di burro fuso. L’apparenza è poco invitante ma, fatta l’abitudine, si può bere tranquillamente, anche se non mi sento di dirvi: Provatelo che è buono!

Il resto della giornata è senza storia, si rientra in caserma in orario per il rancio e l’unica cosa che ho osservato è stata la breve sosta prima della discesa: al comando Tira la bragaa tutti i conducenti hanno accorciato la braga per evitare che il basto scivolasse in avanti, dalla groppa alle spalle del mulo.

Oggi ho imparato qualcosa a proposito dei muli ed ho pure imparato che, anche se non coincide con le consuetudini cui sei abituato, devi accettare un invito quando è un’offerta di amicizia fatta con sincera spontaneità.

Negli anni che ho trascorso nella Vallée ho bevuto molte volte secondo questo rito: vino fresco e vin brulé, ma sempre e soltanto vino.

L’ultima volta che ho bevuto à la ronde non ero in Valle, ero insieme a Daniele Barbaglia e stavamo raccogliendo informazioni e materiale per la stesura del libro Alpi, alpigiani e formaggi, dal Mottarone alla Val Formazza. Nella zona sommitale del Mottarone, abbiamo lasciato l’auto per raggiungere a piedi l’Alpe Nuovo. Eravamo ormai a breve distanza ma non vedevamo ancora l’alpe, nascosta dal bosco, tuttavia eravamo guidati dalle voci di un canto corale.

Usciti dal bosco, in una bella vallecola erbosa abbiamo visto i rustici dell’alpe e, davanti alla casera, seduto attorno ad un tavolo, un gruppo di persone che cantavano. Quando ci hanno visto hanno interrotto il canto e ci hanno fatto segno di avvicinarci, si sono scusati se li trovavamo a tavola a quell’ora (erano le quattro del pomeriggio): avevano caricato l’alpe proprio quella mattina ed il lavoro aveva fatto slittare l’ora del pranzo.

Terminate le presentazioni, siamo riusciti a spiegare il motivo che ci aveva condotto sino alla loro Alpe e sono stati gentilissimi. Ci hanno detto che in quel momento erano presenti tre famiglie: i vecchi con i loro due figli maschi, le mogli di questi e tre bambini. I due figli, tra i venticinque ed i trent’anni, ci hanno detto che avevano provato a lavorare in diverse aziende ma, tra lavori a termine, sospensioni, licenziamenti e nuovi lavori da imparare, si erano accorti di non avere prospettive sicure per le loro famiglie, allora avevano preso la decisione di continuare l’attività del padre ed anche loro si erano fatti allevatori. Adesso si ritenevano soddisfatti del risultato e le mogli annuivano sorridenti mentre i bambini più grandi ci mostravano orgogliosamente i collari ed i campanacci che non erano ancora stati fissati al collo delle vacche.

Chi aveva sparecchiato, aveva lasciato sul tavolo un bottiglione di vino ed una scodella: il patriarca ha riempito la scodella ed ha chiamato tutti a raccolta, voleva brindare al nostro arrivo.

Scusèm ha detto il vecchio, nun suma abituà inscì (Scusatemi, noi siamo abituati così).

Daniele era rimasto sorpreso, forse un poco perplesso dal modo in cui sarebbe stato condotto il brindisi ed allora è stato il mio turno di ripetere l’insegnamento che avevo ricevuto tanti anni prima.

Tutti abbiamo bevuto dalla stessa scodella, secondo la gerarchia: il patriarca per dar inizio al rito, seguito dai i visitatori, per dovere di ospitalità, poi la nonna, per rispetto dell’anzianità, i due figli, quali capifamiglia, le due nuore, prima la moglie del figlio più anziano, sposata da più tempo, ed infine anche due bambini di dieci ed otto anni, il terzo, di appena tre anni, è stato esonerato dal rito.

Macugnaga, settembre 2020

 Immagini tratte da Internet, senza indicazione dell’autore

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