Regalo di un Natale di Guerra

Con questo racconto di Renato Cresta concludiamo le pubblicazioni del 2023.

Ci ritroveremo il prossimo anno, con altre storie e altri racconti.

Il Capitano questa volta ci racconta di Natali di guerra e in particolare ci racconta il suo Natale del 1942: il papà era ferito in Russia mentre il resto della famiglia era sfollato a Trisobbio, un paesino dell’Alto Monferrato.

Erano tempi in cui i sussidiari di campagna erano diversi dai sussidiari di città (forse al fine unico del profitto dell’editore?), tempi in cui gli alunni dovevano andare a scuola con un tronchetto per la stufa e andavano a dormire con addosso un mattone “scaldato nella stufa e avvolto in un panno di lana”.

Al ritorno dalla Messa della vigilia di Natale, l’ultima Messa di mezzanotte concessa prima del coprifuoco fascista che di lì a poco sarebbe arrivato, Renato incontra per la prima volta i fiocchi di neve. E la magia di questa miscela di stati di acqua che cadono lentamente e imbiancano tutto conquista il giovane: un amore a prima vista che porterà poi un genovese a diventare non “gente di mare” ma il Maestro dei Maestri dei nivologi e a spiegare metamorfismi, disegni del vento e strati deboli invisibili e pericolosi a innumerevoli convegni in giro per il mondo.

In vista degli imminenti regali di Natale, come non consigliare questo suo compendio, pubblicato lo scorso anno:

E allora buona lettura, buon Natale e felice nuovo Anno: che sappia portare Pace per tutti dappertutto. Che si possano sentire risate di bimbi dove ora le bombe uccidono e fanno tremare l’orrore del genocidio.

Foto di Banksy

Francesca Fabbri

 

Regalo di un Natale di Guerra

Ho pochi ricordi dei Natali di Guerra, solo la memoria di un Presepe, piccolo, come piccolo era pure l’albero di Natale, decorato con fiocchi bianchi e rossi, oltre a qualche mandarino in vece delle palle di vetro. Sotto l’albero, un giocattolo, un libro e qualche dolcetto. Poi il pranzo in famiglia, ma il termine “pranzo” non deve essere inteso nel senso di abbondanza o raffinatezza: si mangia quel poco che c’è, trovato dalla mamma con grande fatica, nonostante il Governo abbia cercato di far dimenticare i guai in cui ci ha cacciato con una distribuzione straordinaria di viveri, poca roba che, tuttavia, accrescendo la scarsa razione giornaliera, aiuta a “far Natale”.

Una sola cosa è fuori dell’ordinario: la stufa resta accesa tutto il giorno e ci tiene tutti uniti, tutti in cucina per giocare alla Tombola o al Gioco dell’Oca, fino a far giungere sera.

È tradizione che, a fine pranzo, il bambino salga in piedi su una seggiola e reciti la poesia di Natale a tutti gli “astanti”.

Pure io ho dovuto recitarla, era il primo Natale di guerra, il Natale del ‘40 ed io, emozionato bambino di quattro anni, ho sparato fuori, tutto d’un fiato, quanto avevano tentato di insegnarmi le suore dell’asilo:

Oggi è nato un bambinello,

mezzo bue, mezzo asinello

……

Tanti auguri, proprio tanti,

tanti auguri a tutti quanti.

Su felici, in alto i cuori,

oggi è nato il Re dei Tori. 

Dopo le inevitabili fragorose risate, qualcuno mi ha spiegato che Gesù Bambino era stato deposto in mezzo a un bue e un asinello e che non era nato il Re dei Tori, ma il Redentore.

A Trisobbio ho visto il toro e so cos’è, ma il Redentore … cosa vorrà dire?

Di un solo Natale di guerra ho un ricordo più preciso, il Natale del ’42 a Trisobbio, un paesino dell’Alto Monferrato in cui eravamo sfollati. Oltre a me e la mamma, ci sono Valeria, di tre anni, e Lidia che ha pochi mesi. Papà è in Russia e la sua ultima lettera è giunta già da qualche tempo. Noi non lo sappiamo ancora: è stato ferito l’antivigilia di Natale, nei primi giorni del grande attacco russo e, mentre si stava verificando lo sfondamento del fronte, è fortunosamente riuscito a raggiungere un Ospedale da Campo delle retrovie. Sarà rimpatriato verso la fine dell’inverno e, dopo un periodo trascorso all’Ospedale Rizzoli di Bologna, verso la primavera tornerà finalmente in famiglia per trascorrere con noi la convalescenza.

Sono ormai tre mesi che vado a scuola, dapprima a Genova, nella scuola delle Suore di Maria Ausiliatrice, proprio di fronte a casa nostra, poi, da quando siamo sfollati nel paese della nonna, frequento la Scuola Comunale di Trisobbio, nell’Alto Monferrato, anche questa a pochi passi dalla nostra abitazione.

Grazie all’aiuto della mamma, sono capace di leggiucchiare e so già scrivere qualche parola, mentre i miei compagni della “Scuola Rurale”, tenuti a lungo a fare aste, gancetti e cerchietti, prima con la matita, poi con la penna, che permette di decorare i primi scritti con fantasiose macchie d’inchiostro, cominciano appena a compitare.

Vi era un Testo Unico per tutte le scuole d’Italia ma in due edizioni: una per le scuole urbane e l’altra per le scuole rurali.

Io ed altri tre scolari cittadini sfollati studiamo sul primo, i “paesani” su quello per le scuole rurali. La maestra ha detto alla mamma di acquistare anche il sussidiario per le scuole rurali; lei avrebbe seguito il programma previsto per queste scuole che prevedeva, oltre all’apprendimento degli elementi basilari dell’istruzione (leggere, scrivere e far di conto), la conoscenza delle nozioni relative ai bisogni della vita contadina (tecniche colturali, dell’allevamento e di agraria).

Ma avrebbe provveduto a far seguire ai quattro ragazzini provenienti dalla città un programma differenziato, ecco perché avevo due libri di testo. Questi erano simili, ma quello per le scuole di città era un poco più difficile; ecco un esempio della differenza di difficoltà:

 

  • Problema secondo il Sussidiario per scuole urbane: Una mamma ha nove caramelle e vuole dividerle in parti uguali tra i suoi tre bambini. Quante ne spettano a testa?
  • Problema secondo il Sussidiario per le scuole rurali: Una mamma ha nove castagne e vuole dividerle in parti uguali tra i suoi tre bambini. Quante ne spettano a testa?

Ecco la necessità di due diversi sussidiari, di cui uno più difficile ed uno più facile. Non vedete la differenza? Ve la spiego:

È difficile che una mamma contadina abbia in tasca nove caramelle.

È facile che abbia in tasca nove castagne o nove noci … 

Dalle suore ero in classe mista, tante bambine ed alcuni maschietti, pure qui sono in una classe mista, ma il rapporto maschi / femmine è più equilibrato.

C’era differenza nel modo di vestire: le bambine, tutte del paese, vestivano un grembiule bianco con fiocco rosa, i maschietti un grembiule nero e fiocco azzurro, ma questo solo i quattro di città, i “paesani” invece del grembiule indossavano la camicia nera, che finalmente serviva a qualcosa di utile.

Una cosa mi ha sorpreso il primo giorno di scuola a Trisobbio: la Maestra mi ha indicato il mio posto a sedere e poi mi ha chiesto: Hai il tuo pezzo di legna? Quando ha visto il mio sguardo stupito mi ha detto: Di alla mamma che venga a trovarmi.

La maestra abitava nella casa a fianco della nostra e quando la mamma è andata a trovarla ha spiegato che, ogni giorno, ciascun alunno doveva metter nella cartella un pezzo di legna per la stufa. La mamma si è messa d’accordo con un contadino e questi ha portato a scuola un piccolo carico di legna equivalente alla mia quota per tutti i giorni di scuola con stufa accesa.

Natale è vicino e la maestra ci prepara per l’evento: non essendone ancora capaci, la maestra ci ha dovuto leggere e spiegare La notte santa, la chilometrica poesia di Guido Gozzano:

 La neve! – ecco una stalla!

 Avrà posto per due?

 Che freddo – Siamo a sosta

Ma quanta neve, quanta!

Il campanile scocca

La Mezzanotte Santa.

Il ripetersi dei versi ed il succedersi nella poesia delle ore “battute” dalle campane mi hanno affascinato molto ed ho imparato quella strofa che più volte abbiamo ripetuto in coro.

Non sono ancora capace di pensare all’assurdo di quei versi: ai tempi di Gesù non esistevano né i campanili, né gli orologi e le ore si conteggiavano in altro modo.

Ma il campanile domina la scuola, l’edificio che ne nasconde la base e sovrasta anche la casa della nonna, all’angolo destro della strada, non visibile nella cartolina d’epoca.

Ascoltando il tonfo profondo del campanone, che batte le ore, ed il rintocco acuto della mezzana, che batte le mezze ore, ho iniziato ad avere una prima nozione dello scorrere del tempo: conto i rintocchi e guardo la posizione delle lancette, così imparo a leggere l’ora con il sistema “analogico”, che ancor oggi preferisco al “digitale”.

La maestra ci ha letto tutta la poesia, poi ha fatto ripetere in coro ad entrambe le classi, prima e seconda, solo i versi finali del lungo canto e finalmente siamo riusciti ad impararli a memoria, così potremo soddisfare le attese delle nostre famiglie.

Confesso che, quando mi sono messo a scrivere queste note, ricordavo ben poco di quella lirica ed ho dovuto andare alla ricerca di Gozzano e delle sue rime. Mi avevano colpito i primi versi di una strofa verso la fine, quelli che abbiamo imparato, quelli che parlano della neve.

È la seconda volta che una maestra mi parla di qualcosa che non conosco: a Genova la suora-maestra ci ha fatto disegnare la capanna con la stella cometa e poi delle onde celesti che, diceva lei, rappresentavano la neve. A me, che non l’avevo mai vista, quelle onde ricordavano il mare, questo sì che l’avevo visto, ci avevo anche fatto il bagno.

Più avanti negli anni mi sono chiesto se sia stato un caso oppure un’intuizione della maestra, la Signora Vacca che, tra tante poesie di Natale, ne ha scelto una che associa la neve alla nascita del Salvatore. A quel tempo non esistevano previsioni meteorologiche per il pubblico ed ancor oggi mi chiedo se il metterla in programma sia stato un caso o se, forse, sia stato l’intuito di una donna che viveva in un mondo contadino, di una donna che “aveva campagna” ed aveva imparato a leggere i segni locali del tempo.

La notte della vigilia la mamma vuole che l’accompagni alla Messa di mezzanotte: ricordo solo un gran cantare di uomini, il profumo dell’incenso e la mamma che mi fa recitare una preghiera per papà che è in Russia a fare la guerra.

Tra l’altro, questa è l’ultima messa di mezzanotte del tempo di guerra; qualche tempo dopo entrerà in vigore il coprifuoco e le pattuglie tedesche o della milizia fascista potranno arrestare chi si aggira di notte senza permesso o aprire il fuoco su chi tiene atteggiamenti sospetti.

Finalmente la Messa termina e quando usciamo è buio pesto, perché le norme di guerra impongono l’oscuramento di ogni fonte luminosa. Non abbiamo torce elettriche per la ragione che le batterie sono introvabili, abbiamo una lanterna a mano e la fioca luce della candela, posta al riparo tra i vetri, illumina per qualche istante i fiocchi di neve che cadono fitti. Ha iniziato a nevicare durante la messa, per questo ora ho la sorpresa di vedere un incredibile caleidoscopio di rapidi lampi di luce riflessi dai fiocchi, che si alternano a brevi attimi di quasi buio quando un fiocco cade sul vetro della lampada.

È un gioco che dura più del solito perché non scendiamo le ripide scale “del Pozzone”, fatte scivolose dalla neve.

Facciamo invece il giro lungo ed ho il tempo per osservare che, dopo pochi istanti di contatto con il vetro caldo, il fiocco di neve diventa una goccia d’acqua che cola in basso e la lampada torna ad illuminare un breve tratto di strada, tutta bianca, sulla quale compaiono le ombre scure delle orme lasciate da qualcuno che ci ha preceduto. Io non guardo neppure dove metto i piedi, sono troppo affascinato dalla visione dei fiocchi di neve che compaiono nella debole lama di luce della lampada, l’attraversano e poi scompaiono, ma subito altri batuffoli bianchi ripetono il gioco e, piano piano, nascondono tutto e tutto diventa bianco, bianco, bianco.

La mia prima neve mi ha colto di sorpresa, io non me ne rendo conto, non posso rendermene conto, ma questa sera è iniziato il mio apprendistato nel mondo della neve.

È tardi, muoio di sonno e mi ficco nel letto, intiepidito da un mattone scaldato nella stufa ed avvolto in uno straccio di lana. Chiudo gli occhi, ma continuo a vedere quei minuscoli fiocchi bianchi che riempiono i miei pensieri … finché mi addormento mentre fuori lenta la neve, fiocca, fiocca, fiocca[1].

             

Macugnaga, dicembre 2010

[1] Orfano – Giovanni Pascoli

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