comitato scientifico sezionale

In questo racconto delle sue calde estati a Trisobbio Renato Cresta ci narra di campanili, fiumi, pioppi, cicale e del loro allegro e generoso canto.

Come sempre il ricordo di piccoli fatti quotidiani va a braccetto con pensieri e riflessioni e dunque abbiamo punti di vista “da sotto in su” e consapevolezze “economico-finanziarie”: “Certo, mi dicevano che sul mio conto sarebbero maturati gli interessi, ma non mi dicevano quanto avrebbero guadagnato loro investendo i miei soldi”.

Ricordiamo con Renato la favola di Esopo che invita alla laboriosità deridendo il cantare della cicale e preferiamo come lui la filastrocca di Gianni Rodari:

“Chiedo scusa alla favola antica
se non mi 
piace l’avara formica
io sto dalla parte della cicala
che il più bel 
canto non vende…

regala!”

Con questo racconto il Comitato Scientifico Sezionale Vi augura buona estate!
Ci ritroveremo in autunno, con un nuovo tuffo nei ricordi del tempo passato.

Buona Montagna!

Francesca Fabbri

Le cicale

Conservo un ricordo particolare del silenzio che calava sul paese poco dopo il mezzogiorno dei giorni di vacanza che trascorrevo a Trisobbio.

Era più che silenzio, era una vera assenza di suoni e di rumori.

Il pranzo, con zia Nunzia, o con la famiglia, era rigorosamente pronto per mezzogiorno, sicché prima dell’una tutto era finito, la tavola sparecchiata, le stoviglie rigovernate ed io ero già andato al pozzo per rifare il livello ai secchi dell’acqua.

A questo punto tutti si concedevano un sonnellino per trascorrere senza affanno l’ora più afosa del giorno.

Faceva caldo fuori e mentre gli altri andavano a coricarsi nelle camere da letto io mi distendevo su di un mastodontico divano del fresco soggiorno-sala da pranzo, il locale che apre le sue finestre sul balcone dell’edificio di sinistra.

Chiudevo gli occhi, ma non sprofondavo subito nel sonno, restavo per qualche tempo in un semi torpore nella penombra del soggiorno dove,

attenuata dalle persiane alla genovese, faticava a penetrare la forte luce del sole dell’estate riflessa dalle chiare pareti della casa di fronte.

Nel silenzio che era sceso sul paese, dal campanile, che tuttora incombe sopra la casa, giungeva un rintocco, un don-nnn profondo ed io pensavo l’è un bôt, ovvero è l’una, perché a Trisobbio non pensavo in genovese ma in piemontese, visto che solo in questa parlata potevo intendermi con i miei coetanei, già compagni di scuola al tempo della guerra.

Ho scritto don-nnn con sole quattro n ma dovrebbe averne molte di più, quasi fosse un lungo suono emesso da un gigantesco naso; era è ancora un seguirsi di armoniche che lentamente si attenuano e sembrano non spegnersi mai. Quel suono non mi smuoveva dal mio torpore: al contrario, quel lungo vibrare mi conciliava il sonno.

Iniziava così un trascorrere del tempo in cui l’orecchio non percepiva suoni o rumori, in cui non accadeva niente.

Quel silenzio non era solo la mancanza di qualcosa di percepibile al mio udito, era come la sospensione che l’oratore inserisce nel suo discorso per stimolare l’attesa di quanto farà seguito, era come la pausa che il compositore inserisce in un brano musicale per dar valore alle note che seguiranno.

Quel silenzio era la sosta che precedeva la ripresa del mio trascorrere quotidiano.

Dopo qualche tempo consumato in questo stato di semi incoscienza risuonava nuovamente il don-nnn, seguito qualche istante dopo da un dan-n più breve. Subito dopo, come se fossero state destate dai rintocchi, sentivo … cooo … cooo … , il chiocciare sommesso delle galline rinchiuse nel pollaio della casa di fronte e, quasi contemporaneamente, le mosche iniziavano a ronzare e ad infastidirmi, come se anch’esse fossero state svegliate dai rintocchi. Era giunto il momento di alzarmi ed uscire in strada, dove, quasi per tacito appuntamento, incontravo qualche amico che aveva lasciato la casa nello stesso istante. Ed allora, nella calura del primo pomeriggio, camminando nell’ombra leggera delle gaggie che ancora bordano la Strada Vecchia, ci si avviava per la strada polverosa verso l’arian, il Rio Stanavasso.

Qualche volta, giunti ai lavatoi pubblici, dopo aver scrutato ben bene i dintorni, ci si spogliava nudi e, avviata la pompa a mano del pozzo artesiano, ci mettevamo sotto il getto dell’acqua gelida e facevamo la doccia.

Dopo di che andavamo a metterci all’ombra di quei pioppi che ancor oggi ornano le sponde d’l’arian (del riale) e, sdraiati sulla proda del rio, quasi sempre privo di acqua, discorrevamo tranquilli. Disteso sull’erba, mi piaceva osservare “da sotto in su” quei vecchi pioppi allampanati: li vedevo levarsi alti al cielo e agitare appena le cime ad una bava di vento che, in un tremolio di verde e di argento, provocava un delicato stormire delle foglie leggere, quasi trasparenti ai raggi del sole.

Un poeta greco dell’antichità, di cui non conosco il nome, ha scritto:

Quando il cardo fiorisce e la cicala sonora
posata su un albero versa il suo canto acuto
fitto da sotto le ali, è la stagione spossante dell’estate …

Sì, faceva caldo, ma l’ombra dei pioppi l’attenuava, lo rendeva sopportabile e quel brusio delicato delle foglie dei pioppi accompagnava l’incessante frinire delle cicale, impalpabile sottofondo ai nostri inconcludenti discorsi di ragazzi.

Morirà a fine estate la cicala ma, se pur fossi conscio della prossima fine, canterei anch’io emergendo finalmente alla luce del sole dopo aver trascorso, come ninfa, non meno di sette anni sotto terra. Come potrei non cantare se il mio canto fosse il solo mezzo per attirare le femmine? Per le cicale, l’estate è la stagione dell’amore ed anch’io canterei di gioia sperando, in un giorno di sole, di unirmi ad una femmina, sapendo che questa mia unione sarà garanzia di continuazione della specie.

Questo cantare è dunque un inno alla vita che continua, un frinire, quello della cicala, che Federico Garcia Lorca celebra nella sua poesia Cicala:

Cicala!
Felice te,
che sopra il letto di terra
muori ubriaca di luce.
Tu sai delle campagne
il segreto di vita,
e il racconto della vecchia fata
che nascere sentiva l’erba …

 Il poeta presenta la cicala come un piccolo essere innamorato e assetato del puro splendore del sole, tanto da lasciarsi ferire e uccidere dai suoi raggi cocenti per essere trasfigurato in luce.

Sono convinto che il canto che la cicala ci dona gratuitamente sia molto meno fatuo di quanto hanno scritto molti autori, Platone per primo, seguito da Esopo ed altri, fino a La Fontaine.

Ricordate gli ultimi tre versi, quelli del dialogo tra la formica che chiede alla cicala cosa ha fatto durante l’estate?

Je chantais, ne vous déplaise.             Stavo cantando, senza offesa
Vous chantiez ? j’en suis fort aise;     Stavi cantando? Sono contenta:
Et bien! dansez maintenant.               Ebbene, adesso balla!

Questo è quanto educatori, pedanti e parrucconi, mi hanno fatto leggere e commentare quand’ero studente. E poi mi hanno anche fatto svolgere un tema sul lavoro assiduo e sul prudente risparmio, un tema che ha vinto il premio del concorso indetto dalla Cassa di Risparmio di Genova.

In una cerimonia tenuta a Palazzo San Giorgio mi hanno consegnato un libretto di risparmio ricco di 150 lire e mi hanno invitato ad imitare la laboriosa formica proponendomi di versare i miei risparmi nelle loro casse.

Come poteva essere diverso?

Certo, mi dicevano che sul mio conto sarebbero maturati gli interessi, ma non mi dicevano quanto avrebbero guadagnato loro investendo i miei soldi.

Diventato adulto ho letto qualche flastrocca di Gianni Rodari ed ho cominciato a prendere in considerazione questi suoi versi:

Chiedo scusa alla favola antica
se non mi 
piace l’avara formica
io sto dalla parte della cicala
che il più bel 
canto non vende… regala!

Ho cominciato a credere che le cose potevano anche essere andate in modo diverso da quanto mi avevano raccontato: ho cominciato a immaginare che, a causa del suo frenetico ritmo di lavoro,

 

la Formica, colpita da un infarto, fosse stata ricoverata in gravi condizioni nel reparto cardiologia dell’ospedale, mentre la Cicala avesse firmato un consistente contratto per cantare al Festival di Sanremo.

 

E, nel caldo pomeriggio d’estate, quel frinire continuo che faceva da sottofondo alle nostre chiacchiere vane all’improvviso s‘interrompeva: tutte insieme, le cicale smettevano il loro canto e pure noi restavamo muti, sorpresi dall’istantaneo silenzio. Poi, dopo una breve pausa, da un albero, da due, da tre, da quattro alberi, altre due, tre, quattro … cento … mille cicale da tutti gli alberi, tutte insieme riprendevano il loro frinire e continuavano a consumare la loro voce sino a quando in cielo comparivano le stelle.

Solo allora smettevano, per lasciare la “buca d’orchestra” alla Società Filarmonica dei Grilli che, tutta la notte, avrebbe accompagnato i gorgheggi delle rane.

Anche quell’estate è finita presto e pure l’adolescenza ha avuto breve durata: ma io non lo sapevo ancora e, senza pensieri come le cicale, mi godevo quei sereni giorni di vacanza.

Macugnaga, agosto 2013

 

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