“Nel tempo che ho trascorso a Trisobbio, sfollato durante la guerra o, a guerra finita, in vacanza estiva dopo il termine delle scuole, la mia sveglia avveniva sempre alle cinque e mezza”.
Inizia così il nuovo racconto di Renato Cresta: la natura e le stagioni scandiscono tempi e ritmi della vita quotidiana. Tempi e ritmi certo meno frenetici e stressanti dei nostri ma molto più impregnati di sudata fatica: “quei pochi sacchi sono un piccolo tesoro accumulato a forza di fatica, di sudore, di preoccupazioni causate dai capricci della meteorologia, di tante preghiere e di qualche imprecazione …”.
E così leggiamo di dorate e profumate spighe di grano che danzano nel vento, di un bue che scuote la testa “e non capisco se voglia disapprovare il poeta o scacciare i tafani”. Leggiamo di covoni e trebbiatrici, di donne e di riconoscenza: “la madre contadina che al termine della mietitura alza gli occhi al sole e ringrazia il Signore benedicendo il campo di grano con il segno della croce”.
“Verso il mezzogiorno vedevo quelle “cristiane” sulla via del ritorno: la tavola vuota sulla testa e, appesi ai gomiti, due grandi fazzolettoni colmi di fragranza”.
Sarebbe bello se anche noi “evoluti cittadini” fossimo capaci di ricordare la riconoscenza per la fatica e per il lavoro, senza dare follemente per scontato che al supermercato come per noiosa magia si trovi sempre tutto quello che crediamo ci faccia piacere mangiare. E magari senza pretendere che quel tutto sia anche in offerta, incuranti e indifferenti alla fatica e ai diritti negati di chi raccoglie i pomodori per le nostre salse.
E allora immergiamoci in questo racconto di vita campestre, respiriamo le fragranze e lasciamoci accarezzare dal vento, mentre il tempo viene scandito dalla natura e non dalle nostre affollate e un po’ assurde agende.
Con questo racconto il Comitato Scientifico Sezionale Vi augura buona estate!
Ci ritroveremo in autunno, con un nuovo tuffo nei ricordi del tempo passato.
Francesca Fabbri
La trebbiatura
Nel tempo che ho trascorso a Trisobbio, sfollato durante la guerra o, a guerra finita, in vacanza estiva dopo il termine delle scuole, la mia sveglia avveniva sempre alle cinque e mezza.
A darmela era il tu … tuu … , il tubare delle tortore che avevano nidificato sotto la gronda, appena sopra la finestra della camera. Il loro tubare era interrotto, poco dopo, dallo sferragliare, sull’acciottolato della strada, delle ruote di un carro trainato da buoi. Un carro che andava a qualche vigna oppure, se era il mese di luglio, portava il grano alla trebbiatrice. Mi bastava tendere appena l’orecchio per sentire, lontano lontano, il tunf … tunf … tunf … lento e ritmato del motore a testa calda della trattrice,
una Orsi monocilindro, che per anni ed anni, con il suo cinghione di cuoio, ha mosso gli ingranaggi della trebbiatrice.
Siamo ormai a fine giugno e sui campi sparsi lungo le colline del Monferrato si vedono processioni di penitenti, fermi a capo chino, come in preghiera: sono covoni di grano affidati al sole. Ogni fastello di grano, tenuto ben unito da un mannello di spighe usato come legaccio, è eretto a fascio con altri e forma un covone ben alzato sugli steli, in modo che la spiga, lontana dal suolo, sia ben arieggiata e giunga rapidamente all’essiccazione.
Questi sono i giorni che precedono quelli del tunf … tunf … tunf lento e cadenzato di cui ho detto prima, un ritmo che scandisce il tempo da mattino a sera, anzi da stelle a stelle, perché inizia prima dell’alba e termina dopo il tramonto.
La prima luce giunge sull’aia insieme al primo carro di grano, trainato da una coppia di quelli che il poeta chiama “pio bove”, quel bove
… che al giogo inchinandoti contento
L’agil opra de l’uom grave secondi: …
Eccone una coppia: quella specie di chador che portano davanti agli occhi è formato da cordoncini di cotone che, ballonzolando continuamente, scacciano dagli occhi le mosche ed i tafani.
“A Carducci, farinel d’un farinel [1], ven bel e sì al me post a tirè sa carètta” mugghia tra i denti quello dei due che ha “fatto le scuole”, mentre scuote la testa e non capisco se voglia disapprovare il poeta o scacciare i tafani.
L’altro bue bofonchia invece tra sé e lancia al poeta un gran vaffa … forse oggi voterebbe 5 stelle.
Come sono cambiati i tempi e gli slogan!
Poi giunge un altro carro ed un altro ancora, e tutti si accodano in attesa, rispettando l’ordine di prenotazione.
Due uomini si affaccendano con una lampada a benzina che, con la sua fiamma brillante, lambisce una specie di sfera metallica che avanza davanti al vano motore della trattrice, una vecchia Orsi che funziona a “nafta pesante”, la stessa che si usa per i motori marini. Quella specie di sfera che in questo momento stanno riscaldando è la “testa calda”, cioè la precamera di combustione che, quando è ben calda, fluidifica la nafta che dovrà essere iniettata nell’unico gigantesco cilindro del motore (10.000 cm3 di cilindrata).
Dopo un poco uno dei due uomini prende una grande manovella e la inserisce in un alloggiamento al centro del volano, poi l’altro si avvicina, quindi entrambi impugnano la manovella ed iniziano a far girare il grande volano. L’avvio è lento e dalla macchina esce quasi un miagolio: gnan … gnan … poi il volano prende velocità … gnan, gnan, gnan, gnan … ; a questo punto uno dei due sfila la manovella mentre l’altro agisce su una leva: tutta la trattrice ha un sussulto, dà un colpo di tosse e, dallo scarico, emette uno sbuffo di fumo nero, quindi tossicchia, rallenta, arranca, si riprende ed infine tunf… tunf… tunf …, regolare, insistente, monotono, ossessivo.
La trebbiatrice è già pronta e, dietro questa, anche l’imballatrice della paglia; uno dei due uomini sale al posto di guida mentre il secondo prende un lungo cinghione di cuoio che pende dal volano della trebbiatrice e lo fa passare sul volano della trattrice; l’uomo alla guida fa avanzare lentamente il suo mezzo, il cinghione va in tensione ed inizia a muovere i meccanismi della trebbiatrice, che brontola come un pigrone svegliato dal suo sonno. All’esterno non si vede niente, si sente solo il brontolio dei meccanismi, ma il pistone a testa d’asino che comprimerà la paglia inizia a scendere, scompare nella tramoggia e poi risale per riprendere il suo su e giù: siamo pronti.
Ritto sul primo carro il contadino infilza un fastello con il forcone e lo issa sul pianale superiore; uno dei due uomini che hanno messo in moto è già in cima alla macchina, taglia con una roncola il mannello che lega il fastello di grano e lascia cadere tutto nella tramoggia e poi un altro e un altro ancora. Poco dopo, dal retro della trebbiatrice, si ode il fruscio dei chicchi che cadono tintinnando nel grande bidone vicino allo scarico, mentre il pistone della paglia comincia a comprimerla.
Ecco l’imballatrice della paglia, l’unica zona cui eravamo ammessi noi ragazzi; adesso tocca a noi: un paio va al cavalletto dove si prepara il filo di ferro che legherà le balle e, tagliato a misura con la trancia uno spezzone di filo, uno di loro ne piega un capo, lo infila in un gancio fissato al cavalletto ed abbassa la leva che terrà fermo il cappio, poi gira la manovella che fa ruotare il gancio ed il filo si torce per formare un’asola. Altri due sono accanto all’imballatrice, uno per lato: il primo inserisce nel condotto della paglia una forca che ha due guide nelle quali fa passare due fili, il compagno li prende e li porta alla testa della balla, li fa passare nell’asola e li ripiega: quando la balla uscirà dalla guida, la paglia, espandendosi, metterà in tensione i due fili di ferro e la balla sarà ben legata. Altri due ragazzi la porteranno via per fare la pila di balle a disposizione del proprietario.
Il sole, che finalmente ha superato il filare di pioppi lungo l’arian (il rio), fa brillare il polverino della pula che si alza dalla trebbiatrice, una polvere leggera, quasi quella delle d’ali di farfalla, che avvolge in una tenue nebbia macchina, uomini e animali. Sul retro, la cascatella di chicchi riempie rapidamente il bidone, che è presto sostituito e portato a lato per essere vuotato in un sacco.
Il bidone, in lamiera stagnata, è più piccolo di quelli in uso per i carburanti ed ha due impugnature per facilitarne il sollevamento. Ha un volume di tre staia alessandrine , cioè poco più di cinquanta litri e, per stabilire il compenso al proprietario della trebbiatrice, si terrà la conta dei bidoni invece che dei quintali di grano. Tre staia sono giusto la misura del sacco in cui viene travasato il grano; tutto è fatto a misura, ed alla fine sarà sufficiente contare il numero dei sacchi per calcolare il compenso ai conduttori della trebbiatrice.
A scuola ce ne avevano parlato durante le lezioni di computisteria, ma sull’aia l’ho visto messo in pratica: gli aridi come i cereali, non erano misurati a peso, ma a volume, come i liquidi.
Il primo carro ha completato il carico ed il bue si avvia lungo uno dei soliti percorsi della quotidianità. Il gran mucchio di grano che prima era caricato sul carro era stato seminato in autunno, è germinato durante l’inverno, è cresciuto in primavera, infine è stato colto in estate ed ora è ridotto a pochi sacchi che giacciono appoggiati su di un letto di balle di paglia.
Quei pochi sacchi sono un piccolo tesoro accumulato a forza di fatica, di sudore, di preoccupazioni causate dai capricci della meteorologia, di tante preghiere e di qualche imprecazione …
Mi vengono alla mente due versi della poesia Il grano, di Giovanni Papini:
……
quanto penare prima che il mugnaio
gliela riporti in morbida farina!
Le spighe di grano che a giugno ho visto ondeggiare al vento, bionde, secche e profumate, hanno rilasciato il chicco che presto sarà la morbida farina che diventerà quel pane che ho visto portare al forno adagiato su un grande vassoio di legno tenuto in equilibrio sulla testa di tante contadine che provenivano dalle cascine intorno al paese. Erano quelle donne che, sempre il Papini, descrive nell’ultima strofa della sua poesia: la madre contadina che al termine della mietitura alza gli occhi al sole e ringrazia il Signore benedicendo il campo di grano con il segno della croce.
La cristiana alza gli occhi al sol feroce,
poi guarda i figli grondanti, il marito
gobbo nel solco e col suo nero dito
fa sopra il campo un gran segno di croce.
Verso il mezzogiorno vedevo quelle “cristiane” sulla via del ritorno: la tavola vuota sulla testa e, appesi ai gomiti, due grandi fazzolettoni colmi di fragranza.
Farina per fare pane casareccio per i giorni di lavoro, tagliatelle per festeggiare il Natale, la Pasqua, il Santo Patrono … e qui, forse, ci scappava anche una torta arricchita con i doni del frutteto a lato della cascina.
Macugnaga, giugno 2016 Foto tratte da Internet, senza indicazione dell’autore
[1] O Carducci, farinello d’un farinello, vieni qui tu al posto mio a tirar questa carretta.
In piemontese il farinel è una persona affettata, intrigante, un raggiratore, tipicamente dedito alla caccia dei cuori femminili.
Il termine è usato anche per definire, in modo non offensivo, una persona che temi stia per darti una fregatura.