“A Genova la neve è sempre stata rara e, nei miei ricordi, non ha mai superato la ventina di centimetri e la durata di due o tre giorni di poltiglia, da andare in giro con le soprascarpe di gomma invece che con gli scarponi. Solo una volta è caduta abbondante: non sono in grado di precisare quanta fosse, ma ricordo bene che le panchine dei parchi pubblici erano scomparse sotto la coltre bianca”.
I ricordi del Capitano Cresta lo portano alle prime esperienze sulla neve, alle risate con gli amici e alla meraviglia della “magia” della neve: “l’abbagliante piacere provocato dalla neve che riflette i raggi del sole, lo sbigottimento provocato dal non riconoscere quasi quei luoghi che pur conoscevamo bene; i punti di riferimento erano scomparsi, non vedevo i sentieri che pur avevo percorso tante volte; in questo senso, la neve era una rivelazione”.
Poi arriva, dopo qualche anno, la prima volta sugli sci: un’esperienza indimenticabile fatta di infinite culate ogni due o tre metri. Finalmente arriva l’ora di pranzo e “sulle tavole non mancano le bottiglie del vino, che nessuno ha comandato ma che nessuno rifiuta”.
A tavola Renato scopre che gli avevano noleggiato, a caro prezzo, dei vecchissimi sci militari senza lamine con attacchi tipo Telemark.
Ma quando una passione nasce non si lascia intimorire da “fregature”, inesperienza o da un equilibrio indifferente (“quando ignora i miei sforzi per non cadere”) e molti anni dopo il Capitano Cresta diventa maestro di sci alpino e di fondo.
“Durante le prime uscite invernali ero troppo impegnato a trovare l’equilibrio sugli sci per guardarmi intorno ma ho presto capito che, come Giano, la montagna ha due volti: uno è il volto dell’estate, quando puoi percorrerla in ogni senso, l’altro è il volto dell’inverno, quando la neve ti pone dei limiti ma non ti impedisce di andare per monti e di provare nuove sensazioni. Dopo alcune uscite sulla neve ho capito che chi frequenta la montagna unicamente durante l’estate la conosce solo a metà.
È stata l’altra metà, quella che molti rifiutano, che mi ha veramente incuriosito: una curiosità che era una forma di attrazione, fascino, seduzione, incanto, eccetera, eccetera e che, con il volgere del tempo, è diventata studio, conoscenza, ricerca, professione, eccetera, eccetera”.
Ed ecco che passione e impegno si trasformano in professione, scienza, formazione e prevenzione.
Buona lettura e buona Montagna innevata.
Francesca Fabbri
La scoperta dello sci
A Genova la neve è sempre stata rara e, nei miei ricordi, non ha mai superato la ventina di centimetri e la durata di due o tre giorni di poltiglia, roba da andare in giro con le soprascarpe di gomma invece che con gli scarponi. Solo una volta è caduta abbondante: non sono in grado di precisare quanta fosse, ma ricordo bene che le panchine dei parchi pubblici erano scomparse sotto la coltre bianca.
Avevo già visto la neve, ma la mia conoscenza di questa materia è iniziata in quest’ultima occasione, è cominciata proprio quando ho convinto gli amici a cercare in casa una scala di legno per farne una slitta, come avevo visto fare dai ragazzi di Trisobbio.
Siamo saliti sui pendii dietro casa, quelli sotto il Forte di Quezzi, quei pendii che d’estate percorrevamo ogni giorno in cui non potevamo andare al mare, liberi di correre, schiamazzare, tirare sassi, perché non c’era mai qualcuno che potesse essere disturbato dalla nostra straripante giovinezza. Sì, so che si usa dire esuberante giovinezza, ma preferisco definirla straripante perché mi pare dipinga meglio l’idea di quanto fossero abbondanti le nostre energie.
Ma questa volta era diverso: proprio in quei giorni stavo studiando Le memorie di un ottuagenario, di Ippolito Nievo e l’insegnante si era soffermato nel commentare alcuni passi, tra questi quello in cui Carlino, il protagonista, scopre il mare: Mi ricorderò sempre l’abbagliante piacere, quasi lo sbigottimento che ne ricevetti, racconta Carlino.
Oggi, anch’io ottuagenario, in questi miei ricordi ammetto che provai la stessa sensazione: l’abbagliante piacere provocato dalla neve che riflette i raggi del sole, lo sconcerto provocato dal non riconoscere quasi quei luoghi che pur conoscevamo bene. Non vedevo i sentieri che pur avevo percorso tante volte, i punti di riferimento erano scomparsi, avevo perduto l’orientamento consueto, ma ero partecipe di una natura sconosciuta. In questo senso, la neve era una rivelazione.
Poi le risate dei compagni che già scivolavano sulla neve mi hanno riportato al presente: ci siamo divertiti a slittare sugli stessi pendii che d’estate percorrevamo in lungo e in largo e si è affacciata l’idea di andare a sciare. Ma nessuno si è associato a me per dare consistenza all’idea e gestire insieme i primi tentativi. Un paio d’anni dopo ho trovato altri compagni e con questi ho iniziato le mie esperienze.
Durante le prime uscite invernali ero troppo impegnato a cercare l’equilibrio sugli sci per guardarmi intorno ma ho presto capito che, come Giano, la montagna ha due volti: uno è il volto dell’estate, quando puoi percorrerla in ogni senso, l’altro è il volto dell’inverno, quando la neve ti pone dei limiti ma non ti impedisce di andare per monti e di provare nuove sensazioni. Dopo alcune uscite sulla neve ho capito che chi frequenta la montagna unicamente durante l’estate la conosce solo a metà.
È stata l’altra metà, quella che molti rifiutano, che mi ha veramente incuriosito: una curiosità che era una forma di attrazione, fascino, seduzione, incanto, eccetera, eccetera e che, con il volgere del tempo, è diventata studio, conoscenza, ricerca, professione, eccetera, eccetera.
Quando sono partito per la mia prima avventura sugli sci avevo diciassette anni: non avevo abbigliamento adeguato, ma in qualche modo sono riuscito a rimediare: è stato invece faticoso mettere insieme i soldi per il viaggio e per il noleggio degli sci, ma il problema primario era costituito dagli scarponi che, a quel tempo nessuno noleggiava. Ho usato un paio di “Pivetta”, un paio di scarponcelli in pellame scamosciato che usavo per andare per monti.
Con Ivo Aubert e Giacomo Catalfamo, miei compagni di scuola, prendo il treno per Busalla, da dove un’affollatissima corriera ci porta a La Castagnola, un valico tra i monti lungo una delle antiche vie di comunicazione tra Genova e il suo retroterra, una via che mette in collegamento Busalla con Voltaggio.
La corriera ci scarica tutti davanti ad un’osteria, antico punto di sosta di mulattieri e carrettieri; subito dopo inizia il cerimoniale della riconsegna degli sci, tutti caricati sull’imperiale: l’autista, salito sul tetto della corriera solleva una coppia di sci e la passa in basso ad un volenteroso che grida De chi son questi? – I mê – I mê – I mê – e così fino alla fine degli sci. Poi la corriera si allontana lungo una strada, ora pianeggiante, che taglia in due il pendio e sparisce dietro una curva.
L’osteria a bordo strada è l’unico edificio. Mi guardo intorno: verso valle vedo un breve pendio che finisce su un dirupo e giudico all’istante che quello non è il posto che fa per me, ma mi accorgo subito che non fa neppure per gli altri: la massa di sciatori che, con sacchi e tascapane, era entrata nell’osteria, ora ne esce senza impedimenta e, sci in spalla, si avvia lungo il pendio a monte. È un vasto pendio che sale per lungo tratto verso un bosco privo di foglie; so che in alto c’è il paese di Fraconalto, ma da dove sono non è possibile vederlo.
Lascio anch’io la mia borsa-tascapane all’osteria e, mentre salgo in coda agli altri, osservo qualcuno che già affronta la discesa: non sembra difficile, per regolare la velocità devi avvicinare le punte, allargare le code e conservare la posizione. Per fare le curve … ne parleremo più tardi.
A sinistra il pendio è limitato da una dorsale sulla quale sorge un piccolo rustico in muratura con davanti una breve terrazza. Lascio che Ivo e Giacomo, che già hanno qualche esperienza, procedano con il gruppo e mi porto sul ripiano davanti al rustico: calzo gli sci, poi assumo l’atteggiamento “a spazzaneve” e cerco di scivolare avanti, ma non mi muovo, provo a spingere con i bastoncini, ma avanzo di una decina di centimetri … Sei proprio stupido Renato, come puoi andare avanti se freni anche quando sei sul piano.
Laboriosamente mi porto sull’orlo del ripiano e, affacciato sul pendio, riprendo la posizione a spazzaneve, quindi spingo con i bastoncini ed avanzo lentamente; mi sembra che le cose vadano bene ma, improvvisamente, gli sci accelerano ed il corpo no: mi trovo seduto nella neve.
Mi rimetto in piedi ed osservo: avrò fatto si e no tre metri: volevo sciare ed invece la mia prima discesa è stata interrotta da una secca culata. Non torcete il naso perché ho scritto “culata”: prima di scrivere questo termine mi sono documentato e, secondo il Dizionario di Devoto e Oli, la locuzione culata è definita: s.f.,pop. – Colpo battuto o dato col deretano; sappiamo che s.f. vuol dire sostantivo femminile e leggiamo che è seguito da pop. che vale per popolare (e non da volg. – ossia volgare) ed io scrivo con lingua di popolo, evitandone le volgarità.
Rido da solo e intraprendo un nuovo tentativo: vado un poco più avanti, ma non riesco a controllare gli sci, le scarpe sono troppo molli e non trasmettono agli sci i movimenti del piede che, a sua volta, non sta fermo nell’attacco.
Osservo nuovamente gli altri: hanno il busto piuttosto inclinato in avanti e provo ad imitarli: mi chino come un giapponese d’innanzi al suo imperatore ed effettivamente le cose cambiano, infatti non cado più indietro, ma in avanti.
Però adesso ho percorso cinque o sei metri prima di cadere. Beh, la mattinata è trascorsa così; non ho imparato a sciare ma, quanto a cadute non mi sono risparmiato.
Giunge mezzogiorno e ho già i piedi inzuppati perché, ad una quota che si aggira sui settecento metri, il sole scalda bene la neve, che si è inumidita, e le mie calzature non tengono l’acqua. Quasi improvvisamente la pista si svuota, dico “pista”, ma era soltanto un pendio innevato sul quale, a forza di andare su e giù, una cinquantina di sciatori aveva compattato la neve e anch’io avevo contribuito con le mie … cûattè (il dialetto sembra attenuare la trivialità),.
Tutti sono diretti verso l’osteria., Giacomo e Ivo mi raggiungono ed insieme seguiamo il gruppo; ci sediamo ad uno dei lunghi tavoli comuni per mangiare il menù del giorno. Sembra che ci sia un accordo tra i gestori dell’osteria e gli sciatori: non c’è nessun menu, nessuno viene a chiedere cosa ordini, tutti sono in attesa di “quello che passa il convento” ed il convento non ci tratta male, una gigantesca pastasciutta ben condita e poi arrosto e patate. Sulle tavole non mancano le bottiglie del vino, che nessuno ha comandato ma che nessuno rifiuta. C’è allegria nella sala, sembra che tutti si conoscano perché i discorsi e le battute s’intrecciano tra i commensali delle diverse tavolate. L’ambiente mi sembra amichevole e ne approfitto per chiedere qualche consiglio ad uno dei vicini di tavola; in particolare gli chiedo come posso evitare di cadere in avanti quando lo sci si impunta ed i talloni si staccano dallo sci: mi guarda sorpreso, poi mi chiede se ho fatto passare il cavetto dell’attacco nei suoi fermi laterali. Quando gli dico che il mio attacco non ha cavetti ma una cinghia si mette a ridere: Meschinetto, t’ae ancon i attacchi Telemark; no gh’è ninte da fâ. Ti devi solo cangiâ sci – L’ho noleggiè – Aloa cangia bütega, t’an fregou.
Quando usciamo vuole vedere i miei sci: la vernice bianca conferma che sono un vecchio paio di sci militari senza lamine; hanno attacchi tipo Telemark.
L’esperto assicura che gli sci che mi hanno affittato (a caro prezzo, aggiungo io mentalmente) avevano sicuramente fatto la prima guerra mondiale.
Foscia han portou a casa quarche medaggia dice ridendo e continua dicendo che già prima dell’ultima guerra erano comparsi gli sci laminati e con attacchi tipo Kandahar e mi fa vedere i suoi: gli attacchi sono dotati di un cavetto d’acciaio che tiene lo scarpone ben saldo sullo sci e così è possibile controllarlo correttamente.
Mi allunga qualche consiglio e ci separiamo, però io lo tengo d’occhio: forse non è da includere tra i più bravi, ma se la cava bene.
Molti anni dopo, sarò già diventato maestro di sci alpino e di fondo, in occasione dei festeggiamenti di carnevale, mi farò prestare da un vicino di casa gli sci in fotografia, troverò abiti du temps jadis per vestirmi e scenderò lungo le piste di Macugnaga con la tecnica del Telemark, suscitando sorpresa ed allegria negli sciatori presenti in pista che non riuscivano a capacitarsi come fosse possibile controllare sci di quel genere sciando con quella tecnica. Si può, eccome, ma occorre pazienza e … mestiere, cose che, ovviamente, non avevo ancora quando, per la prima volta, ho calzato gli sci.
Giacomo e Ivo vanno nuovamente per i fatti loro mentre io riprendo i miei sci vintage e con questi riprovo a verificare le leggi fisiche dell’equilibrio dei corpi, che abbiamo appena studiato a scuola: ho la conferma che l’equilibrio può essere:
- Labile, quando sono in piedi.
- Stabile, quando sono in terra.
- Indifferente, quando ignora i miei sforzi per non cadere.
Ritorno a casa incerto se essere soddisfatto o deluso. L’insieme mi è piaciuto ma, praticamente, io non ho avuto nessuna idea di quanto possa essere divertente lo sci, anzi … sono proprio stanco.
A causa del difetto del materiale “scarpe-sci,” considero nulla la prova e mi propongo di riprovarci con migliore attrezzatura. Il proposito è buono ma dovrò attendere l’inverno seguente.
Dicembre 2012