La Madonna della Guardia

comitato scientifico sezionale

Con questo racconto sulla tradizionale notte di Natale alla Madonna della Guardia il nostro amico Renato Cresta ci saluta. Infatti, dopo averci donato i suoi bellissimi racconti per oltre due anni, il genovese di Macugnaga deve interrompere questa attività per esigenze editoriali: i suoi prossimi racconti saranno d’ora innanzi pubblicati da un editore!

Leggiamo dunque delle risate della notte di Natale del 1956: “Era la notte di Natale, una notte in cui si deve essere generosi, e noi abbiamo altruisticamente lasciato loro i posti più caldi attorno alla stufa e, insieme a loro, abbiamo riso a lungo”.

Leggiamo dell’Ostaia du Caègâ (l’Osteria del Calzolaio) e della scoperta della luna piena durante la notte di Natale del 1957: “Eravamo una dozzina quella notte, eravamo noi soli a seguire quella via, ma eravamo già troppi: avrei voluto essere solo per fermarmi e godere quello spettacolo.

La luna è l’unica amica con cui il solitario può parlare”.

Con questo racconto dunque Renato e io Vi salutiamo e Vi auguriamo buone feste: che possano diventare feste di Pace ovunque nel mondo.

Grazie Renato per i tuoi piacevolissimi racconti.

Buona lettura, buona Montagna e soprattutto buona PACE!

Ci vediamo in libreria!

Francesca Fabbri

 

La Madonna della Guardia

Non solo i genovesi, ma pure gli abitanti dei territori limitrofi della Liguria, del Piemonte meridionale e dell’Emilia occidentale hanno sempre avuto una particolare devozione per la Madonna della Guardia, venerata nel Santuario eretto sul Monte Figogna.

Ecco il Santuario con il piazzale: è un giorno feriale, un giorno con pochi visitatori, fotografato l’ultima volta in cui vi sono salito con Rosangela: era il 9 ottobre 2019, il giorno del 50º anniversario del nostro matrimonio.

La località è detta “La Guardia” forse perché il Monte Figogna (804 m) è un poco isolato dalla catena appenninica ed abbastanza elevato per permettere l’osservazione di un vasto territorio, consente cioè di “fare la guardia” sia verso il mare, sia verso i monti dell’entroterra. Non è mia intenzione trattare la storia del Santuario: sappiamo tutti, credenti e non credenti, che questa devozione verso la Madonna è sorta a seguito di un evento miracoloso avvenuto i 29 agosto 1490 quando il pastore Benedetto Pareto, per intercessione della Madonna, guarì improvvisamente dalle gravissime lesioni che si era procurato cadendo da un albero.

Come i miei amici del Gruppo Vajolet, non ero particolarmente assiduo alle pratiche religiose (invece di andare alla Messa, tutte le domeniche andavamo in gita) ma la notte del 24 dicembre salivamo in molti al Santuario per assistere alla Messa di mezzanotte.

Il tram ci portava a Fegino e, in meno di un paio d’ore, per una malandata strada sterrata, salivamo a piedi al Santuario, per l’occasione pieno di gente. La Messa era una Messa solenne, con musiche d’organo e canti ma, appena terminata la cerimonia religiosa, tutti fuori per riversarci in una delle trattorie adiacenti per celebrare il rito della “liturgia culinaria”: per mangiare i ravioli, i raviêu co-a boraxe condii co-o tocco de carne, i ravioli con la borraggine conditi col sugo di carne, sì, sugo di carne perché sarebbe stato troppo lungo e faticoso preparare una bigoncia di pesto per condirli tutti.

Si può discutere se a condurci sin lassù fosse la fede o la gola ma, se anche avessimo fatto penitenza rinunciando al peccato di gola dei ravioli e fossimo subito discesi a valle, avremmo dovuto fare una seconda penitenza restando in attesa del tram sino alle sei di mattina, perché la notte di Natale il servizio notturno era sospeso.

Non eravamo mai molti ma, tra ragazzi e ragazze, contavamo sempre su almeno una dozzina di aderenti. Uso i termini ragazzi e ragazze perché il più vecchio di noi non raggiungeva i trent’anni e il più giovane aveva appena compiuto i diciotto.

Verso le tre di notte ci si rimetteva in viaggio per il ritorno ma, circa a metà percorso, era d’obbligo una sosta a L’Ostaia du Caègâ (L’Osteria del Calzolaio).

Da principio non capivo questo abbinamento di mestieri: Perché il calzolaio fa l’oste?

Poi ho pensato che sull’antico e malandato sentiero era facile guastare le scarpe ed un calzolaio poteva trovare buone occasioni di lavoro e, nel tempo di attesa della riparazione, poteva trasformare i clienti in avventori fornendo loro di che bere e mangiare. Viceversa, poteva essere l’osteria che forniva un servizio di riparazione scarpe.

Scegliete voi, la mia era solo un’ipotesi fatta durante il cammino.

Era una tappa abituale durante le salite e discese diurne ma, la notte di Natale, era obbligatorio fermaci durante il ritorno per bere il vin brulé, tenuto al caldo in un gran pentolone posto sulla stufa accesa al centro sala. Un mestolo per sughi, più piccolo di quelli usati per le minestre, permetteva di attingere e versare nei bicchieri e questi scaldavano le mani intirizzite per aver sorretto la torcia elettrica.

Ricordo la notte del 1956 in cui, compiuto il giro del tornante che, procedendo in discesa, precede l’osteria, ci fermiamo sulla porta per attendere gli amici: nella semioscurità di una notte stellata vediamo arrivare tre giovani che non sono dei nostri; si tengono sottobraccio e camminano cantando. Per evitare il lungo giro del tornante voltano a sinistra e saltano giù dal muretto che sostiene la strada. Si sente un gran crack e i giovani scompaiono alla vista, poi le nostre risate superano le loro grida di sorpresa: avevano voluto tagliare la curva ed erano saltati su quello che, nel buio della notte, sembrava un terrazzino di cemento e che si è rivelato invece essere una lastra di ghiaccio alla superficie di una cisterna d’acqua.

La lastra di ghiaccio aveva ceduto ed i giovani si erano trovati immersi sino al petto.

Era la notte di Natale, una notte in cui si deve essere generosi, e noi abbiamo altruisticamente lasciato loro i posti più caldi attorno alla stufa e, insieme a loro, abbiamo riso a lungo.

Raggiunta la fermata di Fegino, verso le sei del mattino compariva finalmente il primo tram e si arrivava a casa intorno alle sette. Io facevo un sonno di qualche ora e poi, tra le dieci e le undici, “rientravo in famiglia”.

Non c’era niente di speciale in quanto facevamo, ma c’era il piacere di stare insieme, di fare un poco di baldoria, di farci gli auguri ed erano molti quelli che si comportavano come noi.

La notte di Natale del 1957, in considerazione del fatto che alcune ragazze del gruppo abitavano a Sestri, abbiamo deciso di rientrare per la bella mulattiera (ora strada) che conduceva direttamente a quella località. Abbiamo allungato il cammino di forse un’ora, ma le ragazze sono rientrate in casa prima delle cinque, molto prima che se avessero atteso il tram a Fegino. Solo noi che abitavamo al lato opposto della città abbiamo atteso il tram gironzolando per più di un’ora lungo le vie del sobborgo.

Durante il cammino mi sono reso conto che quella notte c’era qualcosa di diverso dalle precedenti: nessuno di noi aveva acceso la torcia elettrica perché in cielo c‘era una luna piena che ci rischiarava il cammino, ben evidente e poco accidentato. Noi camminavamo in direzione di quella grande macchia lucente che era il mare al chiaro di luna, uno spettacolo che la strada di Fegino non concede. Camminavo, guardavo la luna e pensavo al Leopardi, al suo Canto di un pastore errante per le steppe dell’Asia Centrale:

Che fai tu, luna, in ciel?

dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,

ancor sei vaga

di mirar queste valli …

e cominciavo a capire qualcosa che a scuola non erano riusciti a farmi comprendere.

Vedevo, lontano, un mare grigio scuro che appena si distingueva da un cielo quasi altrettanto grigio e scuro, ma in cielo c’era una chiara macchia di luce che si specchiava sul mare calmo ed io ero attratto da quella luminosità mentre il resto del paesaggio restava indefinito, senza distrarmi.

Neppure un tramonto sa essere così romantico come la luna che si rispecchia nel mare, quando sembra che quest’ultimo parpelli, che batta le palpebre per non restare abbagliato.

Ho letto molte frasi dedicate alla bellezza della luna, al suo fascino, al suo significato profondo, ma non ne ricordo nessuna da abbinare a quanto vedo, ne sono troppo affascinato. Eravamo una dozzina quella notte, eravamo noi soli a seguire quella via, ma eravamo già troppi: avrei voluto essere solo per fermarmi e godere quello spettacolo.

La luna è l’unica amica con cui il solitario può parlare.

Ero molto lontano dal pensare che quel desiderio si sarebbe avverato: alcuni mesi dopo avrei camminato, da solo, in una notte di luna piena, nei bellissimi boschi della Sila.

Non c’era il mare, ma la luna era la stessa

Ma di questo parlo in un altro racconto dal titolo La luna e le stelle.

 

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