Con questo scritto il Capitano Cresta ci racconta la sua esperienza militare valdostana presentandoci quei compagni troppo spesso ingratamente dimenticati dalla storia: i muli.
“Alpini e muli rappresentano, o meglio rappresentavano, un’unica storia, anzi una saga durata centoventi anni e cominciata nel 1873, quando si formarono le prime dieci compagnie…”
“Perché mai gli alpini scelsero il mulo? È un incrocio, che nasce sterile, fra un asino e una cavalla e dai genitori eredita molti pregi e pochi difetti: è un animale dal passo sicuro che dell’asino ha la frugalità alimentare e la resistenza alle malattie; inoltre, a causa della conformazione delle scapole, simili a quelle del padre, è un animale da soma che può trasportare grandi pesi direttamente sulla groppa. Dalla madre prende il coraggio e la capacità di muoversi su percorsi impervi e scoscesi ma, rispetto al cavallo, è considerato più intelligente e riflessivo”.
Non avevo mai pensato a tutto il lavoro e a tutta la fatica conseguenti al condurre muli come “trasportatori montanari senza motore”: non avevo mai pensato al riposo posticipato, all’alzata anticipata, all’asciugare il sudore al mulo e al farlo bene acqua non gelata ma riscaldata dal sole e a pochi sorsi per volta. La mia, ne sono consapevole, è la superficialità di chi non ha mai avuto bisogno di praticare tutta quella fatica.
Occorre dunque che gli alpini apprendano come avvicinarsi ai muli “sempre davanti, ma in diagonale, con braccia basse e mani aperte, come un invito: l’animale deve vederti e capire che non hai intenzioni ostili ma, anche se la tua presenza dovesse infastidirlo, avrebbe difficoltà a colpirti”, che apprendano come metterli a riposo “in batteria (fianco a fianco) ma facendo attenzione alle simpatie e antipatie: se metti vicini due muli che non vanno d’accordo saranno calci e morsi” (come i bambini…. E come certi adulti …e a volte per esempio la chiamano “politica estera”!), che apprendano come farli bere “quando beve, il mulo è una pompa aspirante che ingurgita acqua e, se questa è l’acqua gelida di un torrente di montagna, sarà facilmente colto da una colica. Durante la marcia, il mulo potrà bere ma il conducente dovrà avere l’accortezza di farlo bere a brevi sorsate”.
Può poi accadere che il mulo non ce la faccia (è un essere vivente, mica un robot) e allora il conducente per poter proseguire la marcia deve liberarlo dal carico sobbarcandoselo lui: “ecco un’immagine che rappresenta bene la fatica: il conducente curvo sotto il peso dello zaino ed il mulo carico del basto, entrambi tesi in avanti, in direzione della salita. Osservate bene la postura degli arti inferiori dei due protagonisti: la gamba sinistra dell’alpino e la zampa posteriore sinistra del mulo tese nell’identico sforzo di spinta in avanti, mentre la gamba destra e la zampa posteriore destra stanno facendo lo sforzo di trazione per gravarsi del carico, pronte allo sforzo di un nuovo passo.
Diversa l’anatomia, eguale la rappresentazione della fatica”.
Questa frase “diversa l’anatomia, eguale la rappresentazione della fatica” raccoglie un mondo e una filosofia, raccoglie la riconoscenza e il rispetto per un essere vivente (il mulo) che silenziosamente si sobbarca la fatica che altri esseri viventi (noi) abbiamo deciso per lui.
La stessa visione si ritrova più avanti: “nessun eroismo, era solo un animale spaventato che doveva essere rassicurato; mi è dispiaciuto averlo dovuto ingannare, sarebbe bastato un pezzo di pane o un biscotto, anche una mela per farmelo amico”.
Non posso non pensare al pensiero di M. R. Stern e alla sua visione della natura e del mondo leggendo questo racconto.
Poi il genovese di Macugnaga ci riporta un aneddoto e ce lo spiega: “due ribelli si erano trovati ed avevano fatto amicizia e l’amicizia li aveva resi tranquilli. Forse entrambi avevano bisogno di compagnia e … di comprensione”.
Il racconto si chiude con la grata riconoscenza: “tutto questo me lo avevano insegnato i miei conducenti, i miei drügiot. Tra i miei ricordi di vita militare sono compresi, con eguale affetto e simpatia, i muli ed i conducenti, i drügiot che mi sono stati compagni di fatiche nei due anni che ho passato al Battaglione Aosta”.
Con questo bellissimo racconto Renato e Francesca vi augurano buona estate e vi danno appuntamento a settembre con altri racconti e nuove avventure.
PS: “Una curiosità: sapete qual era a Genova (in epoca tardo medioevo/rinascimento) la categoria che contava il maggior numero di lavoratori dopo i marinai? Quella dei mulattieri che trasportavano le merci dal porto verso l’entroterra e viceversa”.
Buona lettura, buona montagna e buona estate!
Francesca Fabbri
La Drügia
“La richessa a l’è cume la drugia: a barun a spussia, sbardlaia a ‘ngrassa”.
Forse qualcuno ha già sentito questo detto piemontese che, nella versione italiana, suona così: “la ricchezza è come il letame: a mucchi puzza, sparso concima”.
La drügia è dunque il letame, quella cosa maleodorante che le persone perbene definiscono “fertilizzante organico naturale”, ma nel mondo delle Truppe Alpine delle Alpi Occidentali (quello che, in tono burlesco, era detto Esercito di Piemonte) il termine drügia assumeva un significato più ampio e si riferiva alle salmerie intese nel loro insieme, uomini, animali, scuderie e … letamaio che, per par condicio, sovente era nominato al femminile: letamaia.
Compreso il significato di drügia, non vi sarà difficile comprendere che siano detti drügiot[1] gli uomini addetti al governo dei muli. Alpini e muli rappresentano, o meglio rappresentavano, un’unica storia, anzi una saga durata centoventi anni e cominciata nel 1873, quando si formarono le prime dieci compagnie, e durata sino al 1993, quando tutti i muli furono congedati e messi all’asta.
Ci si può rendere conto di quanto alpini e muli fossero presenti sulla “linea del fuoco” se si considera che, quando è iniziata la 1ª Guerra Mondiale, il Regio Esercito aveva 250.000 muli e, a fine guerra, ne aveva 39.000; gli altri erano caduti in guerra o per cause di guerra.
Perché mai gli alpini scelsero il mulo? È un incrocio, che nasce sterile, fra un asino e una cavalla e dai genitori eredita molti pregi e pochi difetti: è un animale dal passo sicuro che dell’asino ha la frugalità alimentare e la resistenza alle malattie; inoltre, a causa della conformazione delle scapole, simili a quelle del padre, è un animale da soma che può trasportare grandi pesi direttamente sulla groppa.
Dalla madre prende il coraggio e la capacità di muoversi su percorsi impervi e scoscesi ma, rispetto al cavallo, è considerato più intelligente e riflessivo.
Una curiosità: sapete qual era a Genova (in epoca tardo medioevo/rinascimento) la categoria che contava il maggior numero di lavoratori dopo i marinai? Quella dei mulattieri che trasportavano le merci dal porto verso l’entroterra e viceversa.
I drügiot
Quando, con altri tre colleghi, sono arrivato ad Aosta, avevo una stellina dorata che luccicava sulle spalline e in testa il cappello alpino ma, sotto il cappello, ben poche conoscenze a proposito degli alpini: tra queste poche cose c’era anche la consapevolezza che gli alpini hanno i muli e tutto finiva lì.
Ogni compagnia aveva un certo numero di muli (la mia ne aveva 32) e, a turno, ogni ufficiale doveva comandare il reparto salmerie: nella foto si vede il Tenente Penzi, genovese come me e mio caro amico, che sebbene fosse l’Ufficiale subalterno più anziano del Btg. Aosta, nei pressi del Passo dei Salati, tra Alagna e Gressoney la Trinité, avanza in testa alle salmerie della sua compagnia, la 42ª.
Ad alcuni sembrava un incarico minore, un declassamento, invece era un incarico importantissimo: sui basti dei muli era caricato tutto il necessario all’attività del reparto: armi pesanti e munizioni, viveri con cucine e marmitte, paglia per dormire, legna per cucinare e così via, tutto l’indispensabile per alcuni giorni di vita del reparto. Le salmerie erano la logistica, il magazzino mobile del reparto in movimento, se si fossero fermate il reparto sarebbe andato in crisi.
Eravamo appena rientrati dai campi invernali quando il Capitano Fabrizi riunisce tutti noi giovani ufficiali e ci accompagna alle scuderie, dove ci tiene una lezione su questi animali: caratteristiche, dieta, abitudini, governo, eccetera. Ultimo punto della lezione: come avvicinarsi ad un mulo: mai davanti, potrebbe rampare e colpirti, mai dietro, potrebbe tirarti una doppietta da spedirti all’ospedale. Sempre davanti, ma in diagonale, con braccia basse e mani aperte, come un invito: l’animale deve vederti e capire che non hai intenzioni ostili ma, anche se la tua presenza dovesse infastidirlo, avrebbe difficoltà a colpirti, perché le articolazioni delle zampe del mulo permettono movimenti laterali molto limitati. Il collega Busca, Tenente Veterinario, ci passa qualche informazione sui malanni che possono colpire il mulo e, in particolare, su come trattare le “fiacche”, gli ematomi che si possono formare sotto il basto se questo è mal disposto sulla groppa del mulo. Infine visitiamo “l’infermeria quadrupedi”, un locale nel quale isolare un animale malato ed offrirgli la possibilità di adagiarsi su una apposita lettiera (il mulo dorme in piedi).
In un paio d’ore abbiamo osservato ed imparato tante cose che non avremmo mai immaginato e ci rendiamo conto di quanto lavoro facciano i conducenti. Sono sporchi, ma è l’Esercito che li ha destinati a questo lavoro, sono ignoranti (ne abbiamo alcuni, totalmente analfabeti, che stanno frequentando la scuola interna del battaglione per imparare a leggere e scrivere), ma la sanno ben più lunga di noi a proposito dei muli. Puzzano? Sì, non possiamo negarlo, ma dovremo imparare a tollerarlo o, meglio, dovremmo fornire loro la possibilità di lavare più sovente corpo ed abiti.
I nostri drügiot non sono sporchi di letame perché nel servizio alle scuderie indossano una tuta blu, come quella dei meccanici, ma l’odore impregna gli abiti.
In caserma hanno una camerata riservata solo a loro, non solo per evitare di far puzzare tutte le camerate, ma e soprattutto perché sono un reparto quasi autonomo: hanno un’attività tutta loro, con orari diversi, con fatiche diverse e molto pesanti.
Se il reparto deve mettersi in marcia per le cinque del mattino, tutti si alzano alle quattro, ma i conducenti si devono alzare almeno mezz’ora prima perché devono non solo badare a loro stessi, ma anche al mulo: liberarlo dalla sua posta in scuderia, portarlo all’aperto, controllare la ferratura, mettergli il basto e finalmente condurlo all’adunata. Sistemato il carico sui basti, le salmerie si metteranno in cammino in coda al reparto.
Il secchiello in tela che penzola al fianco della cassetta munizioni per mitragliatrice Breda è il “gavettino” del mulo, che sarà abbeverato con quello quando non è possibile farlo bere nell’abbeveratoio o direttamente in un corso d’acqua.
Nella foto si vedono bene il pettorale, la braga posteriore e il sottopancia. Sul basto sono caricate, una per lato, due cassette di cartucce per mitragliatrice; una cosa a cui devono fare ben attenzione il conducente ed il comandante delle salmerie è la distribuzione dei carichi, non solo in funzione della capacità di trasporto da parte dell’animale, ma anche dell’equilibrio del carico, ben bilanciato sui due lati, per evitarne il rovesciamento.
I muli degli alpini trasportavano un carico che poteva superare gli 80 kg + 50 circa di basto; i muli dell’artiglieria da montagna erano molto più robusti: alti almeno 170 centimetri al garrese, tra basto e componente del pezzo di artiglieria, reggevano un carico superiore ai 180 kg. Un obice da 105/14 pesava 1450 kg, ed era stato progettato per essere smontato e caricato sulla groppa di dodici muli: vi risparmio di fare il calcolo: una media di 121 kg a mulo + il basto.
Confrontate la statura del mulo con quella dei due artiglieri da montagna ed osservate con quale naturalezza uno di questi si porta a spasso una bocca da fuoco del peso di 109 kg, un carico che deve essere issato a quasi due metri dal suolo per essere deposto sulla culla centrale del basto del mulo.
È compito del loro comandante, solitamente un sottufficiale od un caporal maggiore, ma ogni tanto anche di un ufficiale che deve farsi le ossa, dare gli ordini o le disposizioni necessarie: controllare il basto, la tensione del sottopancia, del pettorale, della braga per un corretto equilibrio del carico, altrimenti il basto sbilanciato, se non si ribalta, procurerà una fiacca (ematoma) alla groppa del mulo, capace di mettere “fuori uso” l’animale per molti giorni, fino a quando l’ematoma non sarà assorbito.
Quando il reparto fa una sosta si fermano anche i muli, ma il conducente non può sedersi subito a riposare perché deve dare un’occhiata al carico, a basto e imbragatura e pure agli zoccoli, per la ragione che se si cammina su terreno duro la chiodatura di un ferro può allentarsi; se invece si cammina su terreno pietroso un sasso può incastrarsi nel ferro e danneggiare il fettone (la parte molle interna allo zoccolo).
E quando si giungerà al termine del cammino, i muli dovranno essere sbastati, i basti messi sottosopra, al sole, per asciugare il sudore, altrimenti debbono essere coperti con teli. Sempre per asciugare il sudore, la groppa, i fianchi ed il petto dell’animale saranno strofinati con uno straccio o una manciata di paglia; insomma: una mamma ed il suo bambino.
Nel frattempo, qualcuno starà già tendendo il filare, un cavetto di filo d’acciaio teso a circa un metro da terra, attaccati al quale i muli saranno messi in batteria (fianco a fianco) ma facendo attenzione alle simpatie e antipatie: se metti vicini due muli che non vanno d’accordo saranno calci e morsi.
Osservate la foto: tutti i muli hanno le orecchie rizzate, solo uno le tiene basse, forse è innervosito da qualcuno o qualcosa, probabilmente dal fotografo.
Nel frattempo, qualcun altro ha già preparato l’abbeveratoio smontabile e lo sta riempiendo d’acqua prelevata dal torrente, acqua che sarà lasciata al sole, se c’è, perché si riscaldi; altrimenti, con un poco di paglia e qualche pezzo di legno rimediato in giro, si provvederà a scaldare altra acqua che verrà versata nell’abbeveratoio per mitigare la temperatura dell’acqua troppo fredda.
Quando beve, il mulo è una pompa aspirante che ingurgita acqua e, se questa è l’acqua gelida di un torrente di montagna, sarà facilmente colto da una colica. Durante la marcia, il mulo potrà bere ma il conducente dovrà avere l’accortezza di farlo bere a brevi sorsate: una o due sorsate, poi il conducente dovrà tirare il morso verso l’alto per fargli sollevare la testa, trattenerlo qualche istante e poi lasciargli prendere un’altra sorsata e così finché il mulo smetterà di bere.
Fatto tutto questo, il conducente potrà pensare a sé stesso, ma a volte si beve insieme, come mostra la fotografia scattata da Don Piero Solero (✝︎) Cappellano Militare del 4° Rgt. Alpini.
Ricordi delle salmerie?
Qualcuno. Una sola volta sono stato colpito da un mulo: dovevo portare i muli della mia compagnia alla “dieta verde”. Era una pratica di veterinaria che prevedeva che, dopo il lungo periodo invernale a “dieta secca” (fieno, paglia e biada), i muli fossero condotti a pascolare le prime erbe in germoglio, erano un nutrimento eccellente ed un buon lassativo. Il Comando di Battaglione contrattava con alcuni agricoltori il pascolo di un prato e pagava l’equivalente del primo taglio di fieno. I contadini incassavano una somma sicura (la meteorologia avrebbe potuto procurare danni al taglio primaverile) ed inoltre i muli, semplicemente sollevando la coda, avrebbero gratuitamente ingrassato il terreno.
Era dunque la prima uscita primaverile ed i muli, come accadeva in queste occasioni, erano molto eccitati: sentivano la primavera. Poiché diversi conducenti anziani erano andati in congedo e le nuove leve non erano ancora arrivate, ogni conducente portava al seguito due muli “scossi”, cioè senza basto.
La stradina a mezza costa che conduceva al pascolo di Chatignan, oltre St. Cristophe, era franata per un breve tratto, perciò mi sono fermato e, per aggirare la frana, ho fatto salire i muli su di un prato che era poco più in alto. Il conducente saliva per primo sulla ripa di controscarpa e poi, tirando per le briglie, faceva salire la sua coppia di muli. Una coppia accanto a me è ferma in attesa della chiamata del conducente e vedo che il mulo a me più vicino abbassa le orecchie e mi osserva, capisco e riesco a girami di fianco, ma non faccio in tempo ad allontanarmi che quello spara una doppietta: il posteriore destro mi manca e passa davanti al ventre, il posteriore sinistro mi prende sulla coscia sinistra, all’altezza della tasca. Il mulo si allontana ed io massaggio un poco la coscia: niente di grave.
Solo a sera, levandomi i pantaloni, mi accorgo dell’ematoma che ho sulla coscia; poca roba, solo una chiazza bluastra, ma in essa compaiono, ben evidenti, dei dischetti più scuri: si potevano contare le monete che avevo in tasca.
Questo era il mulo, e il conducente?
Eravamo impegnati in una normale marcia addestrativa di inizio primavera e stavamo percorrendo una mulattiera tra i bei boschi di abeti che salgono verso Punta Chaligne, nella Valle del Gran San Bernardo. Raggiunta una zona prativa, priva di neve e ben soleggiata, ordino l’alt.
Le salmerie sostano in coda alla colonna e Cucciola, il Caporal Maggiore che le comanda, mi raggiunge e mi dice che manca l’alpino Pidello: Il suo mulo tira l’ala, così è rimasto indietro. Dopo qualche minuto di attesa vedo qualcosa di incredibile: Pidello avanza ingobbito dal peso del basto (circa cinquanta chili) che ha tolto al mulo e si è messo in groppa. Il mulo segue, a briglia lunga.
Chiedo a Pidello (un valsesiano) perché non ha chiesto aiuto: “A i eri già luntan e pœi dacò mi a sun bun a’d purtè ‘l bast” (“Eravate già lontani, e poi son pur capace anch’io di portare il basto”).
Ogni commento sarebbe superfluo.
Ecco un’immagine che rappresenta bene la fatica: il conducente curvo sotto il peso dello zaino ed il mulo carico del basto, entrambi tesi in avanti, in direzione della salita. Osservate bene la postura degli arti inferiori dei due protagonisti: la gamba sinistra dell’alpino e la zampa posteriore sinistra del mulo tese nell’identico sforzo di spinta in avanti, mentre la gamba destra e la zampa posteriore destra stanno facendo lo sforzo di trazione per gravarsi del carico, pronte allo sforzo di un nuovo passo.
Diversa l’anatomia, eguale la rappresentazione della fatica.
L’alpino Cairati (ne ho parlato nel racconto precedente) apparteneva alla mia Compagnia, ma non faceva parte del mio Plotone. Era un tipo un poco ribelle che, dopo averne combinate alcune, il Capitano Giovanettoni aveva spedito tra i conducenti ed aveva dato ordine che gli affidassero Zulù, un mulo giovane e impestato, cioè anche lui ribelle.
Qualche tempo dopo, mentre sono Ufficiale di Picchetto, faccio un giro di controllo alle salmerie: tutti i muli sono all’aperto per le abituali operazioni di governo. Cairati mi vede e, lasciato libero il suo mulo, mi avvicina dicendomi: A suma diventà amis e accenna al suo mulo. Poi mi porge un tozzo di pan secco e mi dice di metterlo in tasca, quindi mi invita a chiamare il mulo. Chiamo Zulù … il mulo drizza le orecchie e volge il muso verso di me, vieni … e gli faccio segno con il braccio: Zulù si avvicina al passo e mi guarda in viso, poi abbassa il muso e lo batte un paio di volte sulla fondina della pistola, tiro fuori dalla vicina tasca il pezzo di pane e glielo porgo: Zulù lo addenta delicatamente con i grandi incisivi e, un istante dopo, lo intendo franger la biada con rumor di croste di pascoliana memoria.
I conducenti riponevano sempre nella giberna qualche tozzo di pane secco e, per Zulù non c’era differenza tra fondina e giberna: il pane è lì dentro, basta bussare …
Due ribelli si erano trovati ed avevano fatto amicizia e l’amicizia li aveva resi tranquilli. Forse entrambi avevano bisogno di compagnia e … di comprensione.
Un caratteraccio.
Il mulo è un animale tranquillo, ma a stargli vicino si può correre qualche momento di azzardo. Un mulo imbizzarrito è una massa di muscoli che pesa mediamente quattro quintali e può fare danni; chi non li conosce farà sempre bene a starne alla larga; osservate la foto e capirete perché una mula, di nome Pacata, fosse stata soprannominata la Bomba: improvvisamente esplodeva, saltava in aria lanciando le zampe nelle quattro direzioni.
Ero già capitano quando, una mattina, stavo viaggiando lungo la strada verso Courmayeur; giunto al ponte di Runaz, che fa una doppia curva a gomito, vedo alcune automobili ferme in colonna: mi fermo anch’io e, pensando ad un incidente, vado a vedere. Oltre la curva del ponte vi è un tratto di rettilineo e lungo questo, a più di cinquanta metri di distanza, un’altra fila di auto è ferma a bordo strada. In mezzo c’è un mulo che trotta veloce, inseguito da un bacan, un contadino vestito con completo di velluto marroncino, fiocco al collo e cappello in testa. Probabilmente stava andando ad Arvier quando il mulo si è dato alla fuga. Per spaventare l’animale basta una vettura che, improvvisa, passi troppo vicina o dia un colpo di clacson. Il contadino sta per raggiungere il mulo, ma questo si volta e, al piccolo trotto, scappa nell’altra direzione, altro inseguimento e, in vista delle automobili e della folla che si agita, nuovo dietro front del mulo e del contadino che, stanco, perde terreno.
Tutti gli spettatori, ai due terminali opposti dello spazio vuoto, formano una barriera vociante che agita le braccia ed innervosisce ancor più il mulo.
Non ho pane con me e chiedo agli spettatori se qualcuno ha pane o biscotti: negativo. Allora chiedo a tutti di non gridare, non muoversi e non agitare le braccia, quindi estraggo dalla tasca il portamonete e, tenendo le braccia basse, mi faccio lentamente incontro al mulo mostrando il portamonete e, battendo leggermente sopra l’altra mano, faccio tintinnare le monete: il mulo volta la testa verso di me ed accetta l’invito, rallenta e mi raggiunge al piccolo passo, allunga il collo, annusa il portamonete e poi mi guarda deluso, ma ormai è fermo ed io l’ho preso per la cavezza; poco dopo lo consegno al suo padrone, che si raddrizza il cappello e ripete più volte Merci m’ssieur, merci … la piccola folla intorno applaude.
Nessun eroismo, era solo un animale spaventato che doveva essere rassicurato; mi è dispiaciuto averlo dovuto ingannare, sarebbe bastato un pezzo di pane o un biscotto, anche una mela per farmelo amico.
Tutto questo me lo avevano insegnato i miei conducenti, i miei drügiot.
Tra i miei ricordi di vita militare sono compresi, con eguale affetto e simpatia, i muli ed i conducenti, i drügiot che mi sono stati compagni di fatiche nei due anni che ho passato al Battaglione Aosta.
Macugnaga, ottobre 2019
Una foto di Don Piero Solero, le altre tratte da Internet, senza indicazione dell’autore
[1] Nei reparti alpini delle Alpi Orientali, i conducenti erano detti Sconci, altro termine che, ingiustamente, svilisce l’importanza di questi uomini e del loro prezioso lavoro.