Stiamo per leggere un racconto ambientato sulle Apuane, un racconto che “se tornassero “i tempi de ‘na votta” ce ne sarebbe abbastanza per una veglia davanti al camino”.
E allora mettiamoci comodi e iniziamo la lettura di questa nuova avventura del giovane Cresta, non ancora Capitano né esperto, che sale da Vinca al Pizzo d’Uccello insieme al suo amico Giancarlo detto Gianlungo in una giornata di inizio estate.
Il racconto, come sempre, è piacevole e simpatico: il genovese di Macugnaga mescola sapientemente racconti di storie vissute in montagna con riflessioni e scorci di “semplice” quotidiano, dosando divinamente la saggezza della maturità e l’entusiasmo del giovane scalpitante.
La salita è bella, piacevole e nemmeno troppo difficile. In vetta i due amici mangiano alcune albicocche in scatola e poi scendono e “la cosa veramente difficile è stata la discesa, non quella con mani e piedi, ma quella con la moto”!
La moto è una Gilera 150 che ad un certo punto si ritrova non sulla via di salita ma su una “via di lizza”. Nonostante gli scossoni, la difficoltà dell’equilibrio, l’amletiano dilemma in capo al conducente del mezzo circa la scelta tra l’opzione a) consistente nel tenere le gambe larghe per aiutare l’equilibrio e l’opzione b) consistente nel tenere il piede sul freno posteriore a pedale… comunque la direzione è oramai complicatamente obbligata perché quella moto non sarebbe riuscita a risalire quella ripida e accidentata via di lizza. Dunque non resta che proseguire.
“Finalmente giungiamo alla fine della lizza e … Belin, e öua? E adesso? La lizza finisce su una banchina alta un buon paio di metri rispetto al piazzale sottostante e la cosa è ovvia: i blocchi di marmo si fermano ad una quota un poco superiore al livello dei pianali degli autocarri”.
E siccome la moto non salta …”oua scì che serve a corda” . E così “quel giorno anche la moto ha fatto un po’ di alpinismo”.
Poi, sulla via “normale” del ritorno, gli alpinisti si fermano e si concedono una sosta a Rapallo a vedere i fuochi.
Arrivederci alla prossima avventura.
Buona lettura!
Francesca Fabbri
Il Pizzo d’Uccello
Sono quasi le sei di sera del 7 settembre 2023 quando decido di piantar lì i noiosi lavori con cui ho trascinato la mia giornata, una splendida giornata di fine estate, e mi sistemo sul divano davanti al televisore. Quando lo accendo (Canale 3) compare la visione di una montagna che mi pare di conoscere, sto considerando la possibilità che sia il Pizzo d’Uccello quando una voce fuori campo parla di Vinca, una piccola borgata delle Alpi Apuane che sorge proprio ai piedi del Pizzo d’Uccello.
Ci ho azzeccato e la mia attenzione si fa più viva, si concentra sulle immagini che compaiono sullo schermo perché tanti, proprio tanti anni fa, (ne avevo una ventina) sono stato a Vinca e ne sono venuto via senza riuscire a vedere il paese. Seguo il programma sino alla fine, poi mi metto al computer e riesumo un vecchio scritto, lo rileggo e mi limito ad aggiungere queste frasi d’introduzione.
Il racconto non è né lungo, né particolarmente interessante tuttavia, se tornassero “i tempi de ‘na votta”, ce ne sarebbe abbastanza per una veglia davanti al camino.
Su, mettetevi comodi ed ascoltate, o meglio, leggete.
Era un giorno d’inizio estate quando, insieme a Giancarlo detto Gianlungo, sono salito a Vinca, un piccolo borgo delle Alpi Apuane, proprio come appare nella cartolina.
Una lunga sgroppata con la sua moto (una Moto Gilera di soli 150 cm3) lungo l’interminabile sequela di curve dell’Aurelia e del Passo del Bracco, poi deviazione per Aulla ed altra deviazione in su, in direzione di monti le cui cime biancheggiano … di marmo, il marmo delle cave.
Dopo l’erta salita sino a Vinca percorriamo ancora un buon tratto su una sterrata e, dove questa si arresta, ci fermiamo anche noi. Siamo Giunti sin qua per salire, no … per scalare il Pizzo d’Uccello (1.781 m, quello che appare nello sfondo della cartolina ritagliata e ingrandita).
Iniziamo a salire in un bosco di castagni, poi questi lasciano spazio ad un misto di abeti rossi e pini ed il sentiero si fa più ripido. Una lunga serie di tornanti permette di guadagnare quota abbastanza velocemente.
Ancora in salita, sempre più ripida, attraversiamo gli ultimi ciuffi d’alberi e usciamo definitivamente all’aperto, in vista del crinale.
Raggiunto questo, il sentiero si trasferisce sull’altro versante della montagna ed arranca ancora tra erba, ginepri e massi, sempre più grossi. Sul finale la pendenza si attenua un poco e la traccia ci porta alla Foce di Giovo, la sella ben evidente al centro della cresta.
L’avvicinamento al tratto da arrampicare è risultato piuttosto lungo e tortuoso, un misto di erbe, pochi arbusti e molte rocce, qualche passaggio un poco esposto, un canalino franoso, un caldo spossante e noi con le borracce vuote perché pensavamo di riempirle di acqua fresca a qualche fonte, ma tra quelle erbe e rocce non abbiamo visto scorrere neppure un filo d’acqua.
Finalmente l’erba quasi scompare ed attacchiamo la roccia, solida e ricca di appigli; arrampicare su questa roccia non è difficile, mi attendevo qualcosa di più impegnativo, comunque lascia appagato un principiante quale sono ancora.
La lontananza del ricordo non mi permette di identificare con certezza la via di salita: probabilmente siamo saliti diagonalmente al colle e poi lungo la cresta di crinale, quella contro il cielo.
Adesso lo scenario è interamente roccioso e richiede sovente di far uso delle mani. Qualche chiazza d’erba, un canalino che si restringe e diventa un breve caminetto, una cengia, corta ma un poco esposta … non ricordo niente di impegnativo, anche perché la “sensazione di vuoto” è piuttosto rara. Occorre comunque prestare la dovuta attenzione, ma io salgo da secondo e la visione della corda davanti a me mi tranquillizza. Raggiungiamo un’anticima e ci resta da percorrere un tratto su facile cresta per trovarci finalmente in vetta!
Splendido, veramente appagante il panorama sulle cime circostanti, tra le quali spicca la piramide del Monte Pisanino.
Ancor più appagante la scatola di albicocche in conserva che Giancarlo tira fuori dal sacco ma … e l’arviscatoê?
Giancarlo mette al lavoro ciò che non ha mai dovuto usare durante la salita: il martello ed un chiodo da roccia con il quale riesce a forare la scatola e finalmente un poco di succo zuccherato attenua la nostra sete, poi il chiodo diventa scalpello e riusciamo a raggiungere le albicocche, ancora succose. Non mangiamo altro perché altrimenti si presenterebbe nuovamente la sete.
La cosa veramente difficile è stata la discesa, non quella con mani e piedi, ma quella con la moto: poco dopo la partenza, a causa dei violenti scrolloni, mi sono reso conto che il fondo stradale non era lo sterrato che avevamo fatto in salita, ma stavamo viaggiando su una “pista” ghiaiosa, a tratti lastricata con grandi piastre di marmo. Sa solo lui dove ha sbagliato strada!
Il primo tornante mi conferma l’errore di Giancarlo: questa non è una curva, ma un angolo, un cambio netto di direzione e, all’esterno, alcuni tronchi infissi nel suolo presentano i segni dello sfregamento di robuste corde: invece della strada abbiamo imboccato una incisione del versante per la calata del marmo estratto da una cava, una “via di lizza” simile a quella della fotografia.
Ci fermiamo e ragioniamo, ma il ragionamento è breve: invertire la marcia non servirebbe a niente, perché la moto non riuscirebbe a risalire quelle rampe dal fondo sconnesso, quindi dobbiamo continuare a scendere, ma sorge subito la domanda: dove andrà a finire questa lizza?
Questa volta il ragionamento è più complesso: “Una volta giunti a valle, i blocchi di marmo devono essere caricati su degli autocarri, quindi in fondo alla lizza ci deve essere una strada per autocarri e se passano loro passeremo anche noi; basta raggiungerla, seguirla e poi trovare la strada di casa”.
Soddisfatti della nostra acuta ed approfondita riflessione, riprendiamo la discesa.
La lizza non era molto lunga, forse un chilometro, ma guidare la moto per quella discesa era veramente difficile. A causa dei sobbalzi, per mantenere l’equilibrio Giancarlo deve tenere le gambe aperte in modo da poter appoggiare i piedi a terra appena occorre, ma la moto ha il freno posteriore a pedale, per cui o frena o mantiene l’equilibrio e si affida al solo freno anteriore, che fa quello che può. In un paio di tratti, nonostante le ruote fossero bloccate dai freni, la gravità l’aveva vinta e la moto saltellava allegramente verso valle mentre Giancarlo cercava di tenerla in equilibrio ed io, balzato a terra ed abbarbicato al portabagagli posteriore, cercavo di trattenerla frenando con i piedi. Abbiamo persino preso in considerazione l’idea di legare la moto con la corda da roccia e di calarla a mano: uno la regge in equilibrio e l’altro la trattiene, ma abbiamo deciso che l’avremmo fatto in caso estremo, che non si è presentato. Poi Giancarlo ha trovato la soluzione: a motore spendo ha ingranato una marcia ed ha tirato la leva della frizione, la moto ha iniziato a scendere per inerzia, quando rilasciava la frizione, il motore frenava …
Finalmente giungiamo alla fine della lizza e … Belin, e öua? E adesso?
La lizza finisce su una banchina alta un buon paio di metri rispetto al piazzale sottostante e la cosa è ovvia: i blocchi di marmo si fermano ad una quota un poco superiore al livello dei pianali degli autocarri.
Oua scì che serve a corda: abbiamo imbragato la moto con la corda da arrampicata e l’abbiamo calata con rinvio ad un ceppo di legno. Giancarlo controllava la calata ed io, saltato sul piazzale, tesando la corda, tenevo la moto lontana dal muro perché non vi sfregasse contro. Quel giorno anche la moto ha fatto un po’ di alpinismo.
La strada del ritorno non ha dunque toccato Vinca, ecco perché ho osservato con interesse il servizio televisivo: c’ero stato ma non l’avevo vista. Durante la salita avevamo appena lambito l’abitato, durante la discesa ce ne siamo allontanati. Chissà dove siamo passati per ritrovare la via di casa.
Il viaggio di ritorno mi è sembrato interminabile, forse mi sono pure addormentato sul sellino della moto.
Giunti a Rapallo ci siamo concessi un momento di distrazione, giusto il tempo di fermare la moto e sgranchirci le gambe: erano i giorni della festa patronale, che cade ai primi di luglio, e siamo arrivati proprio mentre stava “andando in onda” lo spettacolo pirotecnico.
Beh, quasi settant’anni dopo la TV mi ha fatto finalmente vedere quel paese e conoscere alcuni suoi abitanti che, quando sono passato da quelle parti, avevano più o meno la mia età.
A vederli adesso mi sono reso conto di quanto siano diventati vecchi!