“… i programmi che proponeva Giancarlo, il mio socio più anziano e più esperto, non erano di carattere escursionistico, ma alpinistico; per questo mi sono sempre trovato ad arrampicare sui monti della zona, dai quali potevo solo vedere questo mio programma irrealizzabile”.
Eccoci pronti a partire sulle pagine del nuovo racconto del Capitano Cresta, che ci parla di ricordi delle Marittime, di camosci, di mufloni e di avventure!
“Quel monte è detto Matto per l’incredibile numero di fonti termali che sgorgano dai suoi fianchi”.
“In meno di un paio d’ore sono al Colle e posso spingere lo sguardo su un vasto panorama, dalle Cime di Fremamorta al gruppo dell’Argentera, le montagne più alte e più belle delle Marittime”.
“Di fronte a me, da sinistra, la Catena delle Guide poi l’Argentera e, nell’ombra di una nuvola, la Cima di Nasta. Sono le montagne del ricordo, le vette raggiunte ai tempi delle mie prime esperienze di arrampicata”.
E come di consueto, dopo una bella salita bisogna decidere da che parte passare per il rientro: per il percorso dell’andata o “compiere quella traversata al Colle del Mercantour, quella a cui pensavo tanti anni fa”?
La tentazione della traversata è forte e, durante il simpatico e teatrale dibattito interiore, Renato segue i camosci: “Sono animali agili, ma non hanno le ali quindi, proprio come me, poggiano le zampe per terra. Non sono in fuga alla “si salvi chi può”, quindi seguono una via di ripiegamento che si sviluppa lungo un percorso a loro noto. I capretti non hanno neppure sei mesi, perciò non possono ancora seguire gli adulti lungo percorsi di particolare difficoltà”.
Dunque, la decisione è presa e si seguono le tracce dei camosci: “sino ad oggi, ogni volta che hai fatto una belinata non l’hai mai piantata a metà quindi, come è tua abitudine, devi portare a conclusione anche questa”.
Così l’avventura continua e il nostro Capitano se la cava e trova la non immediata via del ritorno.
Cosa resta dopo una avventurosa escursione in montagna, per quelle montagne che ti riempiono gli occhi e il cuore di meraviglia? La soddisfazione!
“Sono soddisfatto: quest’oggi ho imparato qualcosa da un branco di animali selvatici e poi … io mi sono divertito e voi? “
Buona lettura Amiche ed Amici: e buona Montagna!
Francesca Fabbri
Il Mercantour
Chi è stato in Valle Gessosa sa che, quando giunge al Gias delle Mosche, la strada che sale dalle Terme di Valdieri si sdoppia: a destra conduce al Colle di Fremamorta, a sinistra prosegue per il Pian Casa del Re dove s’inciampa in un altro bivio: sinistra al Colle Ghiglia (Guilié per i francesi) e al Colle del Mercantour, destra al Colle di Ciriegia.
Quando sono salito all’Argentera ho visto benissimo lunghi tratti di queste strade e quando ho raggiunto il Remondino, allora ancora Bivacco, per salire alla Cima di Nasta ho percorso per un buon tratto quella che sale al Col Guilié.
Pensavo che sarebbe stato interessante salire al Colle di Ciriegia (a destra, in parte nascosto dalle Cime di Ciriegia), percorrere il crinale del Mercantour e scendere per il Colle del Mercantour (a sinistra nella foto, il secondo dei due colli gemelli – il primo è il Col Guillié).
Tuttavia i programmi che proponeva Giancarlo, il mio socio più anziano e più esperto, non erano di carattere escursionistico, ma alpinistico; per questo mi sono sempre trovato ad arrampicare sui monti della zona, dai quali potevo solo vedere questo mio programma irrealizzabile.
Passano gli anni, molti, e il lavoro mi porta nuovamente da quelle parti: la Provincia di Cuneo ha intenzione di favorire l’apertura invernale delle Terme di Valdieri e vuole valutare la possibilità e i costi per tenere aperta la strada, con le adeguate misure di sicurezza. A me è stato affidato l’incarico di redigere il Piano di Difesa dalle Valanghe che interessano la strada compresa tra Valdieri e le Terme. Trascorro tre giorni nella zona e poi, invece di trasferirmi in zona Palanfré per identico incarico relativo alla strada della Val Grande, decido di prendermi la domenica di vacanza per salire, finalmente, al Colle di Ciriegia. Eccolo nella foto, con la casermetta che ospitava il piccolo reparto di alpini schierato a difesa del valico.
Percorro con l’auto un breve tratto della Valle del Gesso della Valletta, poi proseguo a piedi sino al Pian della Casa del Re, quindi continuo per il Colle di Ciriegia. Quest’oggi lo zaino è leggero e la salita sulla vecchia mulattiera militare, costruita nel 1937/38, la cui pendenza massima non supera mai il 25%, permette di procedere senza fatica e si può staccare l’occhio dal tracciato per ammirare il panorama sulla Valle del Gesso della Valletta e sul Monte Matto (al centro della foto che segue) che chiude l’orizzonte opposto.
Quel monte è detto Matto per l’incredibile numero di fonti termali che sgorgano dai suoi fianchi.
Da qualche parte ho letto che ne sono state contate 99 (lo scrivo in cifre perché risalta meglio); quelle di fondovalle sono le maggiori per portata e sono sfruttate per le cure termali.
In meno di un paio d’ore sono al Colle e posso spingere lo sguardo su un vasto panorama, dalle Cime di Fremamorta al gruppo dell’Argentera, le montagne più alte e più belle delle Marittime.
Ho sostato un poco ed adesso torno a guardare il panorama: il profilo delle montagne che scendono al Colle si presenta molto ripido verso l’Italia, con pareti quasi verticali; verso la Francia è invece arrotondato.
Nel complesso l’insieme dei due profili ricorda una prosaica polenta tagliata a metà.
Il panorama sul Vallone di Boréon è un po’ deludente: ai lati pareti rocciose poco attraenti e ghiaioni che, uno dopo l’altro, scendono a valle; lontano, sul fondo della valle, si affaccia un bosco d’abeti che nasconde il resto, più oltre non vedi più belle montagne perché la Valle del Cavalet si dirige verso il mare ed i monti sono più bassi e meno arditi di quelli che mi circondano.
Guardo e penso a quanto è accaduto quassù nel settembre del 1943, all’indomani dell’armistizio: rifletto sul dramma delle centinaia di ebrei che, dopo una lunga e faticosa marcia per sfuggire ai tedeschi che avevano occupato la Francia, sbucano da quel bosco e vedono il Colle di Ciriegia: “Oltre quel colle c’è la salvezza, non ci sono più tedeschi a darci la caccia”.
I tedeschi, invece, ci sono e bene organizzati: solo alcuni riescono a salvarsi grazie all’aiuto di civili italiani, ma quasi quattrocento sono catturati dai nazisti e deportati ad Auschwitz. Al termine del conflitto solo in diciotto tornano a casa.
Ho davanti a me, appena a monte del colle, il primo piano del versante delle Cime di Ciriegia, formato da rocce piuttosto ripide e lisce ma, più in basso del colle, vedo che un ghiaione si insinua in una piega del monte, una piega che sembra proseguire verso l’alto ed ha un’inclinazione che la fa apparire accessibile.
Apro la carta e questa sembra confermare la mia intuizione.
L’orologio segna le dieci e mezza e la vetta del Mercantour è più in alto di soli duecentocinquanta metri … Non la vedo, ma vale la spesa di scendere per osservare e poi decidere.
Scendo un sentiero tracciato tra un mare di sassi, poi traverso a sinistra e vedo, oltre la sommità del ghiaione, un canalino erboso che sbuca su una dorsale moderatamente inclinata.
Mi sembra percorribile: risalgo alla sommità del ghiaione, infilo il canalino erboso, è erba corta, non scivolosa, cosparsa di massi ed affioramenti rocciosi. Dopo il canalino, il pendio è ancora ripido ma si fa più largo e mi permette di fare qualche zig zag per abbattere la pendenza e superare qualche piccolo banco di roccia.
Ho così aggirato per basso le Cime di Ciriegia e, superato l’ultimo tratto del pendio erboso, mi trovo sul crinale sommitale, abbastanza largo per procedere senza difficoltà.
La pendenza diminuisce ancora ed infine mi trovo su una dorsale che si adagia, si allarga e mi conduce all’ometto di sassi eretto sulla vetta.
Di fronte a me, da sinistra, la Catena delle Guide poi l’Argentera e, nell’ombra di una nuvola, la Cima di Nasta. Sono le montagne del ricordo, le vette raggiunte ai tempi delle mie prime esperienze di arrampicata.
Appena oltre il crinale, dove non giunge il sole, un sottile strato di neve recente (siamo verso la fine di ottobre). In un breve ripiano oltre la vetta, un piccolo branco di camosci è sdraiato al sole ma, appena mi vedono, tutti si alzano e mi guardano curiosi. No, non credo sia una forma di rispetto, simile a quella che noi riservavamo agli insegnanti quando entravano in classe. Sono allarmati ed io mi immobilizzo: tutti mi osservano un poco, poi il capobranco si volta e, scortato dal suo seguito, si allontana lentamente lungo il crinale.
Non è neppure mezzogiorno e sono indeciso: tornare per la medesima via che ho salito oppure seguire le tracce che i camosci hanno lasciato nei pochi centimetri di neve che ricoprono il suolo del versante in ombra? Sono stuzzicato dall’idea che, forse, se seguissi le loro tracce potrei compiere quella traversata al Colle del Mercantour, quella a cui pensavo tanti anni fa.
Mi dico le solite cose che mi ripeto ogni volta:
- Renato, hai fatto la belinata di venir quassù da solo e senza avvertire nessuno del tuo programma. Dovresti almeno tornare per la stessa via invece di continuare lungo un terreno che non conosci.
Poi penso ai camosci:
- Sono animali agili, ma non hanno le ali quindi, proprio come me, poggiano le zampe per terra. Non sono in fuga alla “si salvi chi può”, quindi seguono una via di ripiegamento che si sviluppa lungo un percorso a loro noto. I capretti non hanno neppure sei mesi, perciò non possono ancora seguire gli adulti lungo percorsi di particolare difficoltà.
A questo punto prendo la decisione:
- Renato, sii coerente: sino ad oggi, ogni volta che hai fatto una belinata[1] non l’hai mai piantata a metà quindi, come è tua abitudine, devi portare a conclusione anche questa.
Mi rimetto in cammino seguendo le tracce dei camosci, che si sono avviati lungo il crinale, ma tenendosi appena oltre la displuviale, sul versante italiano, dove l’ombra ha conservato uno strato di neve di forse cinque centimetri.
A questo punto interviene una reminiscenza scolastica, “Adequatio rei et intellectus”, un pensiero di non ricordo più chi che il Professor Ricci ci aveva illustrato, semplificando in un “adegua l’intelletto alla realtà”; in altri termini: Pensa a quello che fai. Mi fermo a “leggere dentro di me” e mi dico:
– Renato, ti rendi conto che stai facendo una delle solite belinate? Sei sicuro che questa non sia più grande del solito? Ai piedi non hai scarponi da montagna, ma scarponcelli da escursionismo, occhio a dove metti i piedi. Se scivoli passi di sotto e ci resti per sempre perché a nessuno verrà in mente di venirti a cercare giù di là.
– Va bene, ma se ci resto cosa m’importa di dove vado a finire? Diranno che amavo tanto la montagna e che questa mi ha voluto tutto per sé. L’unica cosa che mi scoccerebbe è che, durante qualche cerimonia in mia memoria, qualcuno si metta a cantare Signore delle Cime, un canto che a me non piace proprio.
– Allora, se non vuoi dargli questa soddisfazione, “stai all’occhio”.
– D’accordo, starò all’occhio. Però vedi ben che la traccia dei camosci è percorribile ed invitante e infine, se dovesse diventare impercorribile, posso pur decidere di tornare indietro. Ho ancora molte ore di luce prima che faccia notte.
Riprendo il cammino, che non è difficile, quasi in piano, ma procedo con una certa attenzione a dove mettere i piedi; supero un dosso e, nella depressione che segue, vedo ancora i camosci che mi lasciano avvicinare un poco e poi si allontanano; non fuggono, semplicemente mettono tra loro e me una distanza di sicurezza di almeno una cinquantina di metri.
I camosci sono animali intelligenti, o quantomeno esperti, e me lo conferma sia la loro condotta, sia la scelta del percorso: si sono tenuti appena sotto il crinale, dove è più facile camminare, ma sempre a qualche metro di distanza dal salto nel vuoto, e le loro tracce filano via sicure, senza incertezze.
Dopo un certo tratto sulla dorsale, che si è un poco arrotondata, le tracce iniziano a perdere quota lungo il versante ed io le seguo sino a quando uno stretto canalino roccioso arresta il mio cammino. Loro sono saltati oltre, per me è impossibile. Calarmi nel canalino per risalirlo sul lato opposto sarebbe possibile, ma poco consigliabile: non ho scarpe adatte ad arrampicare. A valle si apre il salto, ma in alto vedo che il canalino si restringe e si chiude: lassù posso traversare, basta che risalga una cinquantina di metri, forse anche meno.
Passando per alto, aggiro il canalino, ridiscendo e riprendo le tracce dei camosci, che adesso continuano a traversare obliquamente in discesa finché contornano verso destra un costone e sbucano al sole del versante francese, dove scompaiono perché non c’è più neve.
Mi fermo sul crinale e guardo intorno: a destra la valle di Boréon, a sinistra la Valle Gesso, in basso, proprio sul crinale, i ruderi di una postazione per mitragliatrice.
- La postazione dovrebbe essere stata realizzata proprio sul Colle di Mercantour e qui ha vissuto una decina di persone, quindi doveva esserci almeno un sentiero per portare viveri e rifornimenti. Vediamo se mi riesce di trovarlo.
Senza difficoltà scendo ai ruderi della postazione e penso a quei poveri cristi confinati quassù, in questa buca; mi colloco dove presumibilmente doveva essere piazzata l’arma e mi rendo conto che un “attaccante” avrebbe trovata lunga, molto lunga la salita sino al valico.
Il richiamo a pensieri del mondo militare mi fa pensare al capobranco:
- Visto con questa ottica è stato bravo!
Ha dapprima condotto, senza panico, il suo reparto in zona defilata poi, vistosi scoperto, si è nuovamente allontanato con calma, permettendo a tutti di seguirlo lungo una via percorribile anche dai più deboli, una via priva di ostacoli e senza strettoie che, creando un imbottigliamento, avrebbero rallentato il movimento. Ha anche posto una barriera sulla via dell’inseguitore: l‘aggiramento del canalino ha rallentato il mio cammino e gli ha permesso di allungare la distanza di sicurezza senza aumentare l’andatura; infine è scomparso dietro il costone ed è svanito alla vista.
È stata un’abilissima manovra di disimpegno che ha portato alla mia “perdita di contatto”.
Non voglio dire che ha ragionato, ma se è stato solo l’istinto, beh, quel capo ha un grande istinto di salvaguardia per il suo piccolo popolo.
Torno alla realtà: apro la carta topografica e faccio il punto:
- Sono al Colle del Mercantour (sul crinale, a destra nella foto).
Lungo il crinale, oltre quella gobba rocciosa c’è il Colle Guilié, su cui passa il sentiero che da Boréon conduce in Italia. Non posso raggiungerlo direttamente perché in mezzo c’è un gobbone roccioso che non vale la spesa di affrontare.
Qui c’era una postazione di soldati, quindi ci doveva essere pure un sentiero per raggiungerla.
Sul versante italiano, poco più in basso della postazione, vedo i resti di una casermetta che forniva riparo alla squadra addetta all’opera di difesa.
Guardo bene la carta finché trovo il sentiero: eccolo, sulla carta sono solo quattro sottili lineette nere lungo la linea di massima pendenza. Raggiungo i resti del ricovero e cerco il sentiero tra gli sfasciumi, lo trovo e inizio a scendere; in qualche tratto è quasi scomparso, ma il percorso è intuitivo e, poco dopo, dove il pendio è meno ripido, la traccia si fa più evidente, più agevole: vedo che conduce ad una sella, quello è il Colle Guilié ed io ho raggiunto il sentiero che, salendo da Boréon, supera il colle e scende verso il Pian della Casa del Re. Adesso il sentiero tra gli sfasciumi è abbastanza evidente e non pone problemi di percorribilità: una interminabile serie di brevi tornanti in un ripido canale mi conduce ad un lungo traverso e qui mi trovo “imbrancato” in un popolo di mufloni che pascolano tranquilli e neppure si scostano per lasciarmi il passo.
- Come hanno fatto per arrivare sin qui? Vuoi vedere che l’han fatta a nuoto dalla Corsica?
Adesso sono del tutto tranquillo: il muflone è un grande camminatore, è un escursionista, non un alpinista come il camoscio o lo stambecco, quindi ormai sono sul sentiero giusto.
Ancora una interminabile serie di brevi tornanti su uno stretto costone e finalmente incrocio il cammino per il Remondino; sono tentato di salire al Rifugio ma tra andata e ritorno sarebbe più di un’ora e questa sera devo essere a Cuneo, a cena da un amico.
Le ombre del pomeriggio cominciano ad invadere la valle; devo rientrare.
Poco più a valle incontro una coppia che regge in spalla zaini ben gonfi; sono i soli “esseri umani” incontrati in tutta la giornata. L’uomo mi dice di essere il custode del Remondino e mi chiede se ho visto gente in attesa al rifugio, gli rispondo che non provengo dal rifugio e gli mostro la strada che ho seguito: spalanca gli occhi, mi guarda un attimo e si allontana senza dir niente. Anche la donna mi guarda, fa un cenno col capo e si allontana. Riprendo il mio cammino e raggiungo l’auto.
Mentre scendo verso le Terme penso alla camminata che ho fatto oggi:
- Sì, dite pure che ho fatto una belinata e che mi è andata bene, non mi disturba proprio.
Non mi disturba perché sono soddisfatto: quest’oggi ho imparato qualcosa da un branco di animali selvatici e poi … io mi sono divertito e voi?
Macugnaga, settembre 2019
[1] Belinata s.f. dial. ~ Sciocchezza, castroneria. (dal Dizionario Elettronico inserito nel computer)