“Vi siete mai fermati ad ascoltare il vento?”
E’ indomabile e affascinante il vento, in montagna come in città.
In montagna è costruttore di valanghe con le sue forti raffiche, in città produce “raffiche strepitanti”.
“Se non ci credete, venite con me sui monti di Genova e ascolteremo una composizione musicale per soli aerofoni, aerofoni ad ancia libera, strumenti nei quali l’aria vibrante non è contenuta all’interno dello strumento, cassa o tubo che sia, ma si trova al di fuori, lo circonda”.
Il nostro Amico Cresta ci racconta di quando da ragazzo andava ad ascoltare la musica del vento sul crinale di Pianderlino: “l’angolino giusto non era mai lo stesso: mi ero accorto che bastava mi spostassi di qualche decina di metri e la musica cambiava”.
La melodia del vento scuote fronde e pensieri e riporta alla mente del genovese di Macugnaga tempi andati e autori immortali quali Gianni Rodari e H.D. Thoreau, che cercando di capire il vento, chissà, forse come tutti noi cerca di comprendere il proprio sentire.
Anche il Capitano Cresta intuisce i racconti narrati dal vento: “… ho visto gli alberi che s’inchinavano al suo passaggio ed un corteo di foglie secche che lo seguiva nel suo cammino…e queste sono parole mie, parole che, portate dal vento, voleranno via mischiate alle foglie secche”.
In queste corrispondenze tra presente e passato, tra Macugnaga e il Monte Moro e Genova con il porto e Pianderlino, si respira un po’ di malinconia tra le pieghe della sensibile prosa dell’Amico Renato che sembra tornare con la mente e con il cuore “alla ricerca del tempo perduto”. E allora il vento diventa come la madeleine e, proprio come una sensibile magia, riporta il pensiero dove abbiamo lasciato un pezzetto di cuore facendoci fare un volo col vento nel tempo e nello spazio.
“E ancor oggi può bastare un alito di vento per farmi chiudere gli occhi e con lui volare lontano per rivedere i colori di quei monti risplendere sotto il sole che illuminava la mia libera e spensierata giovinezza”.
“Come fossero aquiloni, quel vento ha sollevato e portato con sé i miei ingenui sogni giovanili. Chissà dove li ha portati, spero li abbia lasciati cadere tra le braccia di qualche ragazzino che non era capace di sognare. O forse, dopo tanti anni, continua a portarli con sé e chissà, dopo aver tanto girato, tornerà da me per restituirmeli”.
Li ha riportati a Genova dove sono nati caro Renato, agli Amici montagnini del CAI Sampierdarena che ben conoscono i Forti di Ponente da te ricordati.
Ma non solo: grazie alla rete e alla pubblicazione, le tue parole “portate dal vento, voleranno via mischiate alle foglie secche” e navigheranno nel web per approdare ovunque ci sarà gente di mare che se ne va in montagna.
Grazie Renato! Ti aspettiamo al prossimo racconto.
Francesca Fabbri
Le melodie del vento
C’è vento questa mattina, un vento da nord che cala dal Passo del Monte Moro di Macugnaga. È un vento a raffiche irregolari che agitano le cime degli abeti e ne scuotono su e giù i rami più bassi. Sembra quasi che questi riproducano il movimento che noi umani facciamo con le braccia per invitare a rallentare.
Ma il vento ignora l’invito dei rami e ogni raffica genera uno strepito rabbioso a cui si aggiunge la vibrazione dei vetri della finestra che mi ripara. Confronto questo vento con il ricordo di quello che ero io a sfidare quando, ragazzo, proprio nei giorni di vento salivo a Cianderlin, a Pianderlino, poco lontano dal Santuario di N. S. del Monte.
Lascio la finestra e vado alla scrivania, accendo il computer e parto alla ricerca di qualcosa che ho scritto alcuni anni fa.
Rileggo, assesto una frase, correggo un paio di errori di digitazione e giudico che “può andare” così com’è. Eccovi quello che ho scritto a proposito del vento di Genova nel febbraio del 2016.
Vi siete mai fermati ad ascoltare il vento? Questo può presentarsi come un refolo appena sussurrato, oppure come una serie di sbuffi chiassosi sino a trasformarsi in raffiche strepitanti: questi sono rumori, ma sovente il vento produce suoni e un concatenamento di suoni è musica. Se non ci credete, venite con me sui monti di Genova e ascolteremo una composizione musicale per soli aerofoni, aerofoni ad ancia libera, strumenti nei quali l’aria vibrante non è contenuta all’interno dello strumento, cassa o tubo che sia, ma si trova al di fuori, lo circonda.
Sono melodie che nessun musicista è mai stato capace di comporre ma che hanno suscitato l’interesse di uno studente di musica che poi è diventato poeta. È Giorgio Caproni, che ce lo racconta mentre sta rievocando l’abbandono degli studi di musica per narrarci dei suoi primi tentativi poetici.
Caproni, che ha vissuto a Genova la sua età giovanile, narra: “… non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento. Andavo al ponte dell’Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei versi sono nati in simbiosi con il vento”.
Il Ponte dell’Alba, o di Terralba (nella vecchia cartolina), poco lontano dalla mia scuola d’allora, è un sovrappasso ferroviario che offre solo un panorama di binari, vagoni e carri merci in sosta, ma è in una valle aperta al vento. Quanto ai “dischi”, credo che Caproni si riferisca agli ornamenti in stile floreale del parapetto, che mettevano in vibrazione l’aria che li colpiva ed ancor oggi “fischiano” la musica che seduceva il poeta.
Caproni ha scritto “Vento di prima estate”, una breve, bellissima, poesia sul vento, una manciata di versi che mi fa cogliere il ricordo della mia spensieratezza giovanile.
Vento di prima estate
A quest’ora il sangue
del giorno infiamma ancora
la gota del prato,
e se si sono spente
le risse e le sassaiole
chiassose, nel vento è vivo
un fiato di bocche accaldate
di bimbi, dopo sfrenate
rincorse.
Giorgio Caproni parla del vento caldo dell’estate che ha scaldato il prato nel quale noi ragazzi abbiamo sfogato le nostre energie ed ora andiamo spegnere la sete alla fontanella pubblica. Invece io preferivo il vento dell’inverno, quello freddo che giungeva ed ancora giunge dai monti e prendeva d’infilata le valli, sollevando, insieme a polvere e cartacce, anche le gonne delle ragazze.
In quei giorni in cui il vento invernale giungeva dai monti io scappavo sulle alture dietro casa (quelle in secondo piano nell’immagine del ponte) e, raggiunto il crinale di Pianderlino, sostavo per osservare e, soprattutto, ascoltare. Andavo tutto solo e, trovato l’angolino giusto, mi mettevo seduto dietro un muretto di sassi o disteso in una depressione del terreno e ascoltavo.
L’angolino giusto non era mai lo stesso: mi ero accorto che bastava mi spostassi di qualche decina di metri e “la musica cambiava”.
Ascoltavo e pensavo, non a Caproni, che non conoscevo neppure, ma a Leopardi, al vento che, dice il poeta … odo stormir tra queste piante[1] e lasciavo che mi passasse sopra e si portasse via i miei pensieri, che andavano a naufragare in questo mare
… il mare agitato, al largo del porto, un mate nel quale nessuna imbarcazione sfidava il maestrale.
Ascoltavo il vento dei monti della Liguria, che non è il rombare rabbioso delle raffiche che ti raggiungono quando sei in montagna ma, me n’ero accorto molto tempo prima di leggerlo in Caproni, è musica, è un’armonia di suoni ora lunghi, ora brevi, ora appena sussurrati e subito dopo strillati a tutta voce.
È un continuo variare di tono, un crescendo e un calando di note: ora acute, ora gravi e profonde; sibili ben modulati, fischi, mugolii, … una linea di canto che l’orecchio percepisce al di sopra dell’intreccio dei suoni.
Era una melodia suonata soffiando negli strumenti che nessuna orchestra possiede, erano suoni nuovi, suoni tratti dalle arpe eoliche dei boschi di castagni o di pini e cipressi ed anche dalle crepe delle antiche fortificazioni o dai merli delle torrette che ornavano le rare case dai tetti d’ardesia, solitarie sui crinali, fatte proprio per sfidare la pioggia ed il vento.
Ho cercato pensieri o poesie sul vento di autori famosi e ho trovato molto ma, a parte la poesia di Caproni, non ho scovato nulla da condividere: tutto troppo aulico, troppo solenne. Dopo tanto rovistare mi è rimasto tra le mani “solo” Gianni Rodari che, con la sua filastrocca “Il vento”, riesce a farsi bambino e proprio ai bambini racconta che:
Il vento è un musicista:
il suo pianoforte
è il bosco intero,
con la betulla bianca
e il pino nero.
Allora sono tornato a leggermi Walden per ritrovare quelle frasi che descrivevano le mie percezioni, le mie sensazioni di quei giorni lontani. Trascrivo le parole di H.D. Thoreau ed è come se fossero mie: “Quante notti d’autunno e d’inverno ho passato all’aperto tentando di ascoltare ciò che era nel vento, per capirlo e portarlo con me”.
E ce lo descrive: “… io venivo raggiunto da una melodia filtrata attraverso l’aria che aveva conversato con ogni foglia e ogni ago del bosco; quella parte del suono che gli elementi avevano raccolto, modulato e ripetuto di valle in valle”.
Beh, anch’io come Thoreau ho tentato di ascoltare il vento, ma non sono mai riuscito a vederlo, però ho intuito che il vento è il re del mare, dei monti, dei boschi. L’ho intuito perché “… ho visto gli alberi che s’inchinavano al suo passaggio ed un corteo di foglie secche che lo seguiva nel suo cammino”…e queste sono parole mie, parole che, portate dal vento, voleranno via mischiate alle foglie secche.
Ascoltavo rapito questo suono, dapprima simile ad un respiro, ad un alito che rinforza e diventa uno sbuffo, una folata, un soffio, una raffica d’aria in cerca di libertà.
Il vento è energia, il vento è vita!
Seguivo con attenzione questo suono antico come il tempo, poi mi voltavo e, alzata la testa oltre il muretto, verso ovest vedevo i forti di Genova, come nella foto ripresa dai pressi della Torretta di Quezzi.
Verso nord, invece, scorgevo altri colli grigio azzurri e, oltre questi, qualche cima, pallida e lontana.
Riprendo a saccheggiare Thoreau: “C’era abbastanza pascolo per la mia immaginazione” e, spinta dal vento, anche la mia fantasia navigava, ma di bolina; dirigeva controvento verso quei monti e coglieva immaginari panorami di valli boscose, di prati e di pendii lavorati a fasce fino alle rupi sottostanti i crinali e scorci di paesi di cui avevo solo sentito parlare.
E ancor oggi può bastare un alito di vento per farmi chiudere gli occhi e con lui volare lontano per rivedere i colori di quei monti risplendere sotto il sole che illuminava la mia libera e spensierata giovinezza.
Rivedo il verde brillante del pergolato e dell’orto di un’osteria lontana, l’Ostaia du Liamâ, prossima ad un ruscello povero d’acqua, vicina alla teleferica della cava di pietra da cemento del Monte Ratti, rivedo il verde stinto e bruciato dei pendii sottostanti il Forte di Quezzi, spazzati dal vento che agitava il bosco di giovani cipressi, imbrattato dalle chiazze verde cupo di qualche vetusto pino marittimo sotto il quale sarei presto andato con gli amici a raccogliere le pigne da pinoli, … che il vento ha sicuramente fatto cadere!
Più in alto sul monte rivedo le lunghe righe grigie dei muretti di pietra, rivedo il verde dell’erba, brillante in primavera, più grigio durante l’estate, che sfuma verso un giallo-marroncino in autunno, ma sempre punteggiato dalle macchie verde grigiastro del corbezzolo.
Come fossero aquiloni, quel vento ha sollevato e portato con sé i miei ingenui sogni giovanili.
Chissà dove li ha portati, spero li abbia lasciati cadere tra le braccia di qualche ragazzino che non era capace di sognare.
O forse, dopo tanti anni, continua a portarli con sé e chissà, dopo aver tanto girato, tornerà da me per restituirmeli.
Macugnaga, febbraio 2016
[1] L’infinito – G. Leopardi