I cambiamenti climatici sono sempre avvenuti sul pianeta terra e hanno sempre portato stravolgimenti, cataclismi e anche grandi estinzioni di massa.
Quello che non va bene dei cambiamenti climatici attualmente in atto (il noto surriscaldamento globale) è la rapidità degli stessi e la loro causa non naturale ma antropica: cioè … è tutta colpa nostra, nonostante alcuni petrolieri negazionisti continuino a far finta di non capire.
Ma cosa è successo sul nostro pianeta tanto tempo fa? Come è possibile saperlo?
“Ci avete mai pensato? La carta geografica come piccola “macchina del tempo” capace di riportarci indietro di migliaia di anni facendoci scoprire cataclismi di un lontano passato”: quei cataclismi sono lì davanti ai nostri occhi e grazie alle chiavi di lettura scientifiche che ci dona il professor Enrico Martini possiamo fare con lui un affascinante viaggio nel passato, “con un piede nel passato.
E lo sguardo dritto e aperto nel futuro”.
Buona lettura!
Francesca Fabbri
CATACLISMI DI UN REMOTO PASSATO
Enrico Martini
Nella notte dei tempi il nostro pianeta subì più volte netti abbassamenti della temperatura media, che portarono ad un enorme sviluppo dei ghiacciai: queste fasi sono state denominate glaciazioni. Nell’ultimo milione di anni se ne verificarono quattro principali, che hanno ricevuto il nome di Günz, Mindel, Riss e Würm. Würm, la più recente, iniziò circa 120.000 anni fa e terminò più o meno 10.000 anni or sono; durante il suo ultimo massimo, verificatosi circa 20.000 anni fa, molti ghiacciai arrivarono fino all’odierna pianura padana; ovviamente le catene e le vette più elevate rimasero emerse dalla coltre ghiacciata. Eccovi una rappresentazione dell’estensione dei ghiacci durante i massimi dell’ultima glaciazione nelle Alpi Orientali (da Alfonso Bosellini, 1996 – Geologia delle Dolomiti. Ed. Athesia, un testo davvero pregevole).
Quali le cause delle espansioni dei ghiacci? Gli studiosi hanno individuato tre movimenti del nostro pianeta: variazioni dell’asse terrestre, dell’orbita della Terra e precessione degli equinozi; quando questi movimenti si pongono in sintonia si otterrebbe una glaciazione.
I ghiacciai, scendendo a valle per effetto della forza di gravità, esercitano sul rilievo un’azione erosiva potentissima, detta “esarazione”; spesso si sviluppano in corrispondenza di faglie (fratture con dislocazione di una parte fratturata rispetto all’altra), dove trovano substrati un po’ “macinati” dagli attriti tra le porzioni rocciose in reciproco movimento. Per la loro stessa conformazione, nei millenni i ghiacciai scavano una valle che, in sezione, appare come una “U”; sono dei demolitori di rilievi ma si fanno perdonare perché, con il loro “corpaccione”, tengono bloccati i due lati della valle da loro creata, garantendone la stabilità.
La Vallunga, a nord-est di Selva di Val Gardena, con la sezione ad U mostra chiaramente la sua origine glaciale. I boschi ai lati dell’intaglio sono cresciuti su morene laterali.
Un problema grave si presenta quando, con l’innalzamento della temperatura media, i ghiacciai si ritirano per poi scomparire. Per un po’ i fianchi delle montagne resistono, poi possono verificarsi frane ciclopiche; è a queste frane che allude il titolo: pensate che in Austria, con la frana del Fernpass (il passo delle felci), sono crollati in basso circa tre miliardi di metri cubi di rocce e terra.
Veniamo ad un paio di esempi di casa nostra, particolarmente significativi tra quelli presenti nelle Alpi Orientali. Ecco il primo.
Salendo da Vittorio Veneto verso Belluno, un paesaggio particolare ha posto gravissimi problemi ai costruttori di autostrade, tutti, però, brillantemente risolti. Purtroppo gli automobilisti che transitano sull’autostrada che va da Venezia a Belluno e poco oltre sono troppo impegnati a gareggiare in velocità per accorgersi di questo capolavoro: l’autostrada ha dovuto adattarsi ad una paleofrana di dimensioni colossali. Procediamo con ordine ed osserviamo l’immagine che segue.
Dall’Atlante stradale e turistico del Touring Club Italiano “Italia Nord” -2019-2020
La zona che propongo alla vostra attenzione è immediatamente a sud del lago di Santa Croce, generato da una paleofrana ciclopica che ha sbarrato la valle migliaia di anni fa. Da sud la statale sale fino alla Sella di Fadalto (487 metri sul mare), l’autostrada va oltre in galleria. Le rocce sono precipitate da est in quella che anticamente era una valle ad “U” scavata dal ghiacciaio del Piave. Osserviamo l’immensa nicchia di distacco che si estende sui versanti occidentali del Monte Millifret (1581 metri sul mare): la vediamo prima dalle rive del lago di Santa Croce.
Ed ora dall’alto del Nevegàl:
Difficile quantificare il volume del materiale franato (nella foto ne appare solo una parte e inoltre i detriti sono risaliti anche sul versante opposto): ipotizziamo 100 milioni di metri cubi, 250 milioni di tonnellate circa. Salendo in alto, neppure ponendo l’obiettivo su una focale di 12 millimetri sono riuscito ad inserire in un’unica fotografia l’immensa nicchia di distacco lasciata dalla frana. Nell’immagine che segue sono visibili la sella di Fadalto (a sinistra), il casello autostradale “Fadalto Lago di Santa Croce” e parte del materiale detritico precipitato a valle.
L’autostrada è un’opera d’ingegneria tra le più ardite: i costruttori sono stati obbligati a trivellare gli ammassi detritici, mantenendoli in sicurezza, mettere a nudo la roccia madre, sanarne le eventuali fratture, scavare i pozzi destinati ad accogliere le fondamenta dei piloni,
edificare questi ultimi impiegando materiali che ne garantissero la stabilità per decenni: davvero un capolavoro costruttivo! Peccato che me ne accorga solo io, che procedo a 100 all’ora venendo sorpassato da chi, incurante di quanto lo circonda (e di quanto costa oggi il carburante), vi transita a 150-180 chilometri l’ora beandosi della propria abilità di guida e del proprio cervello (che ritengo di avere il diritto di giudicare disabitato). Senza neppure pensare alle conseguenze che avrebbe un incidente in un luogo simile e ad una simile velocità.
Veniamo al secondo esempio: riprendiamo la cartina; questa volta, con una freccia vi ho indicato il Monte Dolada (1939 m s.m.) e con un’altra, di diverso colore, il corso del Piave. Ora una domanda: può un fiume ignorare il principio d’inerzia? Ogni corpo mantiene il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché non intervenga una forza a modificarglielo. Perché allora il corso del Piave presso Ponte nelle Alpi compie una sorta di angolo retto? Evidentemente perché è intervenuta “una forza” a modificarlo. E quale può essere stata questa forza? Solo un altro crollo gigantesco di materiali rocciosi venuti giù dal Dolada dopo che il ghiacciaio del Piave era definitivamente scomparso. Osserviamo la cartina e poi l’immagine successiva.
Ci avete mai pensato? La carta geografica come piccola “macchina del tempo” capace di riportarci indietro di migliaia di anni facendoci scoprire cataclismi di un lontano passato.
Questa è approssimativamente la deviazione del corso del Piave imposta al fiume dalla massa di detriti crollata a valle dal Monte Dolada.
Ed eccovi ora l’immagine della montagna: ben visibili i principali piani di scivolamento dei materiali la cui discesa ha lasciato in piena vista diversi ripidissimi pendii rupestri messi a nudo dalla perdita della copertura.
Due remoti cataclismi a poco più di cinque chilometri uno dall’altro.