Alzi la mano chi, dopo un’escursione, non concluda la giornata col classico “terzo tempo” e non si vada a prendere una birra fresca con i compagni al bar del paese prima di tornare a casa.
Lo facciamo perché il medico ci invita a reintegrare i sali minerali (😊), lo facciamo per contribuire a sostenere l’economia locale, lo facciamo per rilassarci un po’ prima di avventurarci sulle autostrade intergalattiche liguri del ritorno, lo facciamo perché bere e chiacchierare dopo l’uscita commentando la giornata fa proprio parte dell’escursione stessa.
Con questo racconto il genovese di Macugnaga, l’Amico Renato Cresta, condivide con noi l’usanza che aveva di andare, coi suoi amici montagnini, al pranzo comunitario di primavera a Capenardo per “pranzare nell’unica osteria della località, una località talmente piccola che ti chiedi come possa esserci un’osteria”.
E così ogni anno gli amici percorrevano una breve salita di circa 600 metri senza fretta e godendosi la primavera, “quella del ciclo delle stagioni e quella del ciclo della vita, la primavera dei nostri anni verdi”.
Condividere il cibo è un gesto simbolico forte: sia per la tradizione cattolica dell’ultima cena e dell’Eucarestia che per la tradizione laica e solidale che conia la parola “Compagno” (colui col quale si condivide il pane).
“Un pranzo comunitario dovrebbe essere più di una pausa dalle fatiche quotidiane, dovrebbe essere un’occasione di incontro per promuovere sintesi di esperienze ed emozioni personali, familiari, sociali. In altre parole, il pranzo comunitario è un’esperienza che, se ben vissuta, trasforma il cibo da vivanda materiale a nutrimento immateriale”.
Nelle celebri parole “frutto della terra e del lavoro dell’uomo” si può pensare l’incontro dei bisogni immanenti e trascendenti: riconoscere il corpo e le sue necessità e riconoscere le necessità degli altri, necessità e bisogni che è davvero bello praticare insieme, in comunione e in comunità.
E i nostri pasti quotidiani come si svolgono? Sono occasioni di incontri in famiglia oppure la frenesia della malata vita moderna ci ruba questi momenti di condivisione? Avvengono chiacchierando e condividendo pensieri ed emozioni o in silenzio ascoltando distrattamente la tv o rispondendo a urgentissimi messaggi di smile e cacchine?
Pranzare insieme su un sasso durante una salita come riunirsi a tavola dopo un’escursione è proprio bello e mette allegria il solo pensiero: “la tavola è lo schieramento di seggiole, tutte eguali, che accoglieranno i commensali, tutti diversi l’uno dall’altro, ciascuno portatore di una sua soggettività e di una sua esperienza. La tavola diventa luogo d’incontro con l’altro, momento di confronto di gusti e di idee”.
A tavola se arriva un Amico “imprevisto” ci si stringe e si divide il pasto: è un gesto così naturale spostare le sedie e far posto sorridendo. Ma poi la giornata finisce, il pranzo sociale o la birra del terzo tempo pure e si torna al quotidiano cittadino … dove molti non sorridono più tanto, non fanno più posto e corrono tesi e un po’spenti per 5 giorni su 7 se va bene.
Grande il bisogno di Montagna, di escursioni, di compagni di escursione … e di terzo tempo!
“La tavola è Leonardo e il suo Cenacolo: un Capo, undici fedeli ed un traditore, perché anche questo può accadere a tavola”.
Buona Montagna…. E buon pesto genovese (ovviamente con aglio!) a tutt*.
Francesca Fabbri
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
Ammetto di esserci rimasto male quando qualcuno mi ha informato che i due massimi sistemi di cui parla Galileo non sono il mangiare ed il bere, come pensavo io, ma il sistema tolemaico e il sistema copernicano, ossia la visione del sistema solare secondo Tolomeo e Copernico.
Mi hanno detto che il testo di Galileo tratta di astronomia e questa affermazione mi ha offerto una maniglia a cui aggrapparmi per rimediare alla gaffe: ho ribattuto che, attualmente, il mangiare ed il bere hanno raggiunto prezzi astronomici pertanto quando parlo di mangiare e bere resto in argomento.
È ovvio che non possiamo rinunciare ad assumere cibo e vivande ma, da qualche tempo, tendiamo a dimenticare che una delle basi della convivenza tra esseri umani consiste nell’assumere cibo e bevande insieme a chi è amico.
Un pranzo comunitario dovrebbe essere più di una pausa dalle fatiche quotidiane, dovrebbe essere un’occasione di incontro per promuovere sintesi di esperienze ed emozioni personali, familiari, sociali. In altre parole, il pranzo comunitario è un’esperienza che, se ben vissuta, trasforma il cibo da vivanda materiale a nutrimento immateriale.
Convinti di tutto questo, andiamo su Internet e digitiamo “Pranzo comunitario”: troviamo un sacco di digressioni a proposito del come preparare i partecipanti, del come inoltrare gli inviti, del dove organizzarlo, del menù, della scelta del ristorante o dell’affidare l’organizzazione ad uno chef, ed altro ancora.
Ho letto con attenzione tutte le istruzioni, ma nessuna di esse ha suggerito di andare a piedi a Capenardo e di pranzare nell’unica osteria della località, una località talmente piccola che ti chiedi come possa esserci un’osteria.
Tavolata a Capenardo
Noi del G. A. Vajolet non avevamo nessuna idea della filosofia del mangiare congiuntamente, tuttavia, almeno una volta all’anno, ci trovavamo per mangiare insieme, ma “il pranzo” era solo una scusa: era il piacere dello stare insieme, una soddisfazione che metteva in moto un lavorio di alcuni che organizzavano il convivio. Lo scopo palese era il pranzo, lo scopo nascosto era quello di riunire il maggior numero possibile di associati, cosa che nessuna “assemblea” sarebbe mai riuscita a fare.
Organizzavamo un “pranzo sociale” e, perché fosse più stretto, più amichevole, cercavamo una località minuscola e isolata e per questo quasi esclusiva: Capenardo.
Teoricamente avremmo dovuto esserci solo noi ma … e se dovesse arrivare qualcuno extra?
Nessun problema:
Aggiungi un posto a tavola
che c’è un amico in più,
se sposti un po’ la seggiola
stai comodo anche tu,
…
Gli amici a questo servono
a stare in compagnia.
Sorridi al nuovo ospite,
non farlo andare via.
(dal testo di “Aggiungi un posto a tavola”, di Jonny Dorelli e altri)
Il Capenardo che si vede riprodotto in cartolina è quello di allora, con l’antico sentiero che, partendo da Prato, saliva abbastanza dolcemente sino al poggio in fondo al quale si ergevano le poche case della località.
Ora ci si può arrivare in automobile, ed è giusto che sia così, se la comunità politica e/o amministrativa abbandona un paese presto il paese sarà abbandonato anche dagli abitanti.
E allora avrete ruderi in montagna e necessità di fornire un’abitazione a chi si è trasferito in città. Poi occorrerà provvedere ai servizi, trovare un lavoro per gli adulti, ammettere alla scuola i bambini, eccetera eccetera, sino a giungere ad allargare il cimitero, perché anche di questo ci sarà bisogno. E tutto questo costa non solo in termini di denaro, ma pure in termini di spazio, di spazio che viene sottratto al verde senza che le aree abbandonate diventino verdi.
O forse sì, saranno presto verdi … di erbacce, arbusti, muschi e muffe.
Ma noi, noi del G. A. Vajolet, non pensavamo a tutto questo. Come ho detto, ogni anno, una domenica di tarda primavera salivamo tutti sul tram, anzi in sce-a rebelloia, la vettura a rimorchio del tram che faceva capolinea a Prato. Lasciata a destra la strada per il Passo della Scoffera, prendevamo a sinistra e, dopo qualche centinaio di metri di asfalto, imboccavamo una mulattiera e, calpestando la mattonata ed i sassi del rizzato, salivamo a Capenardo. Una salita piuttosto breve, circa seicento metri di dislivello, da fare senza fretta, godendoci la primavera, quella del ciclo delle stagioni e quella del ciclo della vita, la primavera dei nostri anni verdi.
Andavamo lassù per sederci a tavola tutti insieme.
Quando ha avuto inizio l’uso di stare a tavola insieme?
Probabilmente già in tempi molto lontani, da quando gli uomini si sedevano attorno ad un fuoco e si spartivano il cibo che, insieme, si erano procurati. Dalla primitiva pratica di condivisione del cibo è lentamente emersa l’esperienza della convivialità che oggi è racchiusa nell’immagine dello stare insieme attorno ad una tavola, ovviamente imbandita.
Già lo stare seduti insieme serve a vivificare quello spirito comunitario di scambio della parola che dovrebbe condurre alla reciproca intesa, alla condivisione delle idee. Se ci sediamo attorno ad una tavola sulla quale sarà deposto del cibo, il tutto assume significati simbolici che vanno oltre il puro valore nutrizionale. La condivisione del cibo, che un tempo era prezioso, suggella questa intesa di idee e di sentimenti. Ne è conferma il gesto di spezzare e condividere il pane durante l’ultima cena.
La tavola è il cibo, sia inteso come sostanza protagonista del “mangiare per sopravvivere”, sia inteso come “linguaggio, cultura, mezzo di comunicazione”.
Il rito di sedersi attorno ad una tavola imbandita ne rimarca la sua potenza simbolica.
La tavola è lo schieramento di seggiole, tutte eguali, che accoglieranno i commensali, tutti diversi l’uno dall’altro, ciascuno portatore di una sua soggettività e di una sua esperienza.
La tavola diventa luogo d’incontro con l’altro, momento di confronto di gusti e di idee.
La tavola è Leonardo e il suo Cenacolo: un Capo, undici fedeli ed un traditore, perché anche questo può accadere a tavola.
La tavolata è un’occasione di allegria che ci mette tutti a tavola alla stessa ora ed anche questo aspetto contribuisce a rafforzare la comunità. La vita moderna non sempre permette alla famiglia di riunirsi a tavola; quella famiglia viene così a perdere un’occasione di unità e comunicazione.
Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all’infuori di quella del lettore. È una regola dettata, quindici secoli fa, da San Benedetto: durante il pasto comunitario, infatti, un monaco legge passi delle Sacre Scritture.
Aspettate prima di dire Che barba! Pensiamo a quanto facciamo noi durante il pranzo in famiglia: forse anche noi mangiamo in silenzio perché stiamo tutti in ascolto di quanto ci dice … la televisione.
Noi, per quanto ben lontani dal pensare le astrazioni o le sottigliezze di ragionamento che ho appena scritto nelle righe sopra, approfittavamo dell’occasione per rinsaldare la nostra amicizia:
- Un antipasto di salumi artigianali equivaleva al sorriso del primo incontro.
- Un piatto di ravioli co a boraxa (la borraggine), ancora fatti a mano perché i ravioli industriali non esistevano neppure, era considerato quanto una vigorosa stretta di mano.
- Un arrosto cotto sul fuoco di legna equivaleva ad una energica pacca sulla spalla.
- A torta dä madonnâ, confezionata dalla nonna carica d’anni sulla traccia di una ricetta di almeno pari età, era l’abbraccio finale.
- Il bicchiere di vino, vino comune, ma schietto e genuino come schietti e genuini erano rapporti tra i membri del gruppo, equivaleva al bollo apposto dal notaio sulla nostra amicizia. E tanto meglio se i bolli erano più di uno.
Già, i bicchieri di vino erano più di uno.
Ancora San Benetto, nella sua regola scrive: Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente.
San Benedetto raccomanda la temperanza, ma lui scrive a proposito del pranzo di tutti i giorni, tuttavia la quotidianità del mangiare e del bere non deve far dimenticare il valore della relazione.
Durante il pranzo delle occasioni speciali si tende ad infrangere la regola della temperanza, ma non ricordo casi di abuso, certamente si beveva, ma non fino alla sazietà.
Anche il bere può elevarsi a rito di aggregazione e socializzazione, ma di questo parlerò in un prossimo incontro.
Nessuno di noi è mai andato a rovistare tra i rifiuti di cucina per guardare le etichette delle confezioni, anche perché non ce ne fregava proprio niente se su queste non era ancora riportata la scritta: senza grassi – senza glutine – senza sale – senza zuccheri aggiunti – senza aglio, una scritta, quest’ultima, che ho letto sull’etichetta di diversi vasetti che, senza vergogna, dichiarano di contenere Pesto alla Genovese.
Ecco alcune delle etichette colpevolizzate (le macchie nera e rossa nascondono la marca del prodotto). Riporto integralmente un trafiletto in proposito che ho pescato su Internet:
Secondo il Consorzio di Tutela del Pesto Genovese, gli ingredienti del pesto basilari sono: basilico genovese, olio extravergine di oliva (ligure), parmigiano, pecorino sardo, pinoli, aglio e sale. Ormai in commercio ci sono numerosi pesti alla genovese e, se leggete bene sulle etichette, i pinoli vengono sostituiti con gli anacardi, l’olio extravergine di oliva con l’olio di semi, ecc… Già dal colore si può capire che non ha niente a che vedere con il pesto genovese ricetta originale e tradizionale.
Vorrei riuscire a vivere così a lungo da poter leggere anche senza sapore sulle etichette di quei vasetti.
Macugnaga, marzo 2023